Foto Ansa

Dilemma tecnocratico

Monti vs Draghi: sul Pnrr la scelta per l'Italia è fra flessibilità e norme coatte

Giuliano Ferrara

Uno è per spendere i fondi europei tutti e subito, l’altro è dubbioso. Il dibattito felpato e in sordina tra tecnocrati sul debito cattivo

Passò politicamente e curiosamente inosservato un articolo di Mario Monti, tecnocrate di alto livello che ha praticato la politica in Europa e in Italia in un momento difficile con l’escogitazione dell’unità nazionale, alla stessa stregua di Mario Draghi sebbene in circostanze differenti. Draghi non ha fatto l’errore di entrare nella politica dei partiti e delle elezioni in modo un po’ troppo casuale, cosa che ha fatto invece Monti, ma anche per lui il passaggio del Quirinale e l’uscita da Palazzo Chigi hanno avuto qualche elemento di problematicità. L’eredità dei governi tecnocratici di unità nazionale è considerata buona o anche ottima da chiunque abbia sale in zucca, con tutte le differenze di stile e di significato anche simbolico delle due esperienze, ma l’articolo di Monti rimescola un po’ le cose e fa emergere una differenza di interpretazione, di cui non si sa come non si possa tenere conto, sul punto cruciale del piano finanziario pluriennale di prestiti e grants dell’Unione detto Next Generation Eu, con il relativo intrattabile acronimo Pnrr.

 

Monti in sostanza, semplificando ma non troppo, ha sostenuto che ha ragione la Lega quando dice che i soldi europei che non si è in grado di spendere è meglio lasciarli dove sono. La scuola di pensiero draghiana è incline invece a pensare che sarebbe un grosso guaio se non adempissimo disciplinatamente e meticolosamente al piano di spesa verso il quale i partner si sono impegnati con noi, rispettando scadenze di investimento e di riforma connesse, e non circola in quegli ambienti un grande ottimismo sulla possibilità che, a questo punto, ce la si faccia a stare in linea con il programma concordato passo dopo passo. Chi abbia ragione è poco chiaro. Il dibattito è felpato e in sordina, come usa fra tecnocrati e loro seguito. Ma è importante stabilire dove stiano torti e ragioni, perché un ceto decisivo che sta al di fuori per definizione della logica partigiana dei partiti, delle opposizioni e dei governi, esprime in questa divaricazione strategica un dilemma vero su com’è l’Italia e come dovrebbe essere (e su com’è l’Unione europea e come dovrebbe essere).      

 

Il problema non è solo se Meloni e Fitto se la caveranno, non è solo se le diverse ondate di prestiti e grants arriveranno secondo le scadenze previste, accompagnando piani credibili di spesa, progetti e riforme connesse di modernizzazione del paese. Queste cose, da che vengono messe sulla carta, poi si negoziano. Uno scontro tra governo e Commissione di Bruxelles o Consiglio europeo sarebbe drammatico e cieco, porterebbe a un fallimento sia italiano sia europeo, di cui sarebbero responsabili due colossali burocrazie e i loro referenti politici e di stato. E ne nascerebbe un casus belli politico di prima grandezza. Il problema sottostante, e decisivo, è se abbia senso la condizionalità di fondo a cui il Next Generation Eu è legato: un piano quinquennale di tipo, per esagerare, “sovietico”, ma allo scopo di riequilibrare nel senso della contemporaneità e della convergenza generale un paese piuttosto acciaccato sotto profili importanti come l’energia, le infrastrutture, la mobilità, la transizione digitale ed ecocompatibile e molti altri settori trainanti di un’economia di mercato nella quale lo stato e l’Europa fanno la parte del prim’attore. 

 

La domanda sotto la diatriba è questa? L’Italia può trasformarsi in una gabbia di piano con scadenze e profili normativi “coatti” o la sua unica possibilità è una certa flessibilità gradualistica e trasversale ai suoi grandi problemi di governabilità della spesa d’investimento? Al fondo c’è anche la questione del debito buono, cioè la convinzione draghiana, testimoniata in molte occasioni, che la soluzione alla crisi generale, dopo la pandemia e tanto più in una situazione di guerra e inflazione, sia nella capacità di organizzare il circuito banche mercati stati e imprese intorno a un progetto serio e rilevante di spesa a debito ben concepita e realizzata, con riforme che rendano possibile la modernizzazione. Pare di capire che chi abbia dubbi, come Monti, sul debito buono, abbia anche dubbi sulla necessità di ottenere e spendere tutti i soldi di un Piano che ha le sue rigidità e le sue costrizioni e accresce un debito da sempre predicato come debito cattivo. Sarebbe utile se si uscisse da una riservatezza estrema e da un eccesso di accademia, e se queste questioni dirimenti fossero messe in piazza con maggior spigliatezza e chiarezza. Il discorso democratico e politico ne guadagnerebbe. 

Di più su questi argomenti:
  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.