Il padiglione italiano al Mobile World Congress di Barcellona dedicato quest’anno all’intelligenza artificiale (foto LaPresse) 

Il dibattito politico è scaduto a intrattenimento. L'IA salverà la democrazia

Antonio Pascale

Fra talk-show, tweet, like e opinionisti improvvisati, ciò che sappiamo deriva dal sentito dire, e non ci aiuta nelle scelte. Gli antichi greci usarono anche il caso per i loro esperimenti democratici. Forse per noi sarebbe ora di ricorrere all’intelligenza artificiale

Tanto lo so! Quindi, senza che fate gli gnorri, gli impegnati, gli intellettuali. Senza che fate vedere che ve ne intendete. Senza che usate i soliti aggettivi, passione, forza, coraggio, o frasi standard come il tempo di cambiare, il coraggio delle scelte o la forza della parola. Senza che andate alla Biennale Democrazia per ottenere la commozione del pubblico con grandi discorsi poetici/retorici. O vi fate il giro nei gazebo a votare per le primarie. Senza che vi eccitate per quel punto in più di iscrizioni dopo la vittoria del vostro partito. Tanto lo so che pure voi sotto sotto siete come me: il dibattito politico vi fa schifo, cioè, non ce la fate proprio più a vedere i talk televisivi, tantomeno a leggere i commenti politici sui giornali. Voi come me vi siete resi conto che il dibattito politico è solo intrattenimento, avanspettacolo, compagnia di giro, ben pagata, gente che fa audience, personaggi che gli autori televisivi (come me) cercano, perché questo o quello è capace, una stupidaggine al momento giusto, di alzare di un punto e mezzo lo share, o meglio: di diventare virale addirittura per ben 24 ore, trend topic, fare la gioia di TikTok e di  ByteDance – anche se poi fate gli gnorri e interrogati in proposito dite che non è vero. 


Voi come me vi siete altresì resi conto, magari in qualche notte di insonnia, di questo fatto increscioso: non sopportare la politica. Questo coté di strani personaggi, tra i quali vanno conteggiati opinionisti, commentatori, influencer che girano per i talk o si collegavano via Skype, 20 minuti 1.000 euro, che va bene costano, ma vi garantiscono anche con una solo stupidaggine, provocazione coatta, frase che mi è uscita dalla pancia perché parlo come mangio, vi assicurano, dicevamo, il necessario strascico polemico. Roba per ottenere la copertura stampa e dell’online per ben 24 ore – e capite bene che se sono un inserzionista e devo piazzare il mio prodotto preferisco il programma pieno di stupidaggini ad altri meno teatrali, diciamo così. 


E appunto vi siete resi conto, insonni come siete, durante una notte particolarmente angosciosa che come me non sapete niente di niente. Interrogati approfonditamente su un argomento qualsiasi vi ritrovate nudi, fragili, tutti presi ad arrampicarvi sugli specchi. Non sappiamo niente di energia, agricoltura, manifattura, a stento ricordiamo le regioni italiane, pensate se ci chiedono della Cina o dell’India. Non sappiamo niente perché invecchiamo (si alza maledettamente l’età media) anche se ci crediamo immortali e arzilli, pronti a cominciare la quinta età in sella a una moto, in giro per il mondo. Ma invecchiamo anche perché abbiamo speso il nostro tempo ad ascoltare l’avanspettacolo comico e tragico dei talk e di tutto il dibattito politico odierno: dunque in testa risuonano migliaia e migliaia di suoni (parole, un soffio di aria inconsistente) che stimolano i nostri istinti atavici, suoni che ci incantano e ci emozionano ma mica ci fanno riflettere

 

Non ci resta niente, se non cori da stadio. Stonati da migliaia di suoni cacofonici come possiamo svolgere il nostro dovere di cittadini, ben informati e capaci di deliberare su questioni sensibili

     

Ci siamo resi conto che non ci resta niente, niente di niente, se non cori da stadio che va bene, non nascono dagli stadi ma dall’agorà televisivo. Che sono cantati non da beceri tifosi ma da raffinati opinionisti ma il risultato lo vedete, è davanti a voi, nelle notti di insonnia: dopo i cori di sostegno ci ritroviamo nudi e fragili,  feriti, ci arrampichiamo sugli specchi. Dunque con questa sensazione addosso e turbati, stonati da migliaia di suoni cacofonici come possiamo – ci chiediamo – svolgere il nostro dovere di cittadini, ben informati e capaci di deliberare su questioni sensibili?  


Cioè, facciamo i conti: sono passati duemila anni e passa dal primo larvato esperimento democratico iniziato con la riforma di Clistene e perfezionato durante l’età di Pericle e come è possibile che stiamo ancora là?  

 

Pericle da buon demagogo interpretava gli umori del popolo, li raffinava e decideva o al contrario inzuppava il pane in quegli umori, anzi li sobillava, corrompeva il dibattito (preludio della deliberazione), in quanto assecondava il peggio senza puntare al meglio?  
Anzi, diciamo la verità, a quell’epoca perlomeno c’era Socrate (e grandi tragici e Ippocrate e la rinascita ionica a spingere verso l’innovazione culturale) e quindi stavamo più in là, rispetto ad ora. Perlomeno qualcuno che si poneva il problema c’era. Qualcuno che come voi ci teneva alla politica ma non sopportava l’andazzo dei talk e del dibattito pubblico imperante c’era eccome. Almeno c’era Socrate. 

 
Riflettiamo: il soggetto privilegiato degli studi di Socrate è stato proprio Pericle. Socrate, questo cittadino, questo oplita ateniese più volte decorato in battaglia, aveva una fissazione speciale per Pericle. Perché mai? Perché va bene, noi ci ricordiamo Socrate per i fatterelli simpatici, roba che può servire per far bella figura in ogni ambiente – la gran parte dell’aneddotica viene dal suo amico Senofonte che quasi aveva paura del pensiero del filosofo – lo ricordiamo meno per l’aspetto più serio del suo pensiero: il rapporto con la parola e dunque con Pericle, il più grande statista ateniese del V secolo, che è riuscito a farsi rieleggere per quasi trent’anni.


Socrate si è esercitato nella palestra di Pericle. I pesi che ha utilizzato per gli allenamenti sono quelli che ancora oggi fatichiamo a usare. Uno, per esempio, riguardava il rapporto tra individuo e collettività, un altro la relazione tra le libertà collettive e quelle individuali. Insomma, visti questi rapporti, chi decide? Pericle o i cittadini? Pericle decide per i molti o interpreta quello che i molti pensano? E se Pericle decide, che competenze ha per decidere?  Con quale conoscenza prende le decisioni?  Il decisore ha una disciplina intellettuale, un metodo di analisi che garantisce una buona deliberazione? 


Nella antica Atene non erano questioni peregrine, pensate nelle città moderne. Voglio dire, Pericle ha sì ricostruito una città e ha innalzato il Partenone ma si è anche buttato in una dolorosa e fallimentare guerra con Sparta (la guerra nella città antica era la norma, la pace un’eccezione) e Socrate (via Platone, nel dialogo Gorgia) ha sottolineato più volte il suo giudizio su Pericle, di certo controcorrente: ha involgarito il dibattito, ha corrotto gli animi. Ed era Pericle. Pensate i nostrani. 
Un giudizio controcorrente, perché Pericle ne ha fatti di miracoli, appunto facendosi rieleggere e quindi vuol dire che gli ateniesi si riconoscevano in lui. Però tutto ciò non ci libera dal nodo socratico: Pericle da buon demagogo (un termine che all’origine indicava leadership) interpretava gli umori del popolo, li raffinava e decideva o al contrario inzuppava il pane in quegli umori, anzi li sobillava, corrompeva il dibattito (preludio della deliberazione), in quanto assecondava il peggio senza puntare al meglio? Lui guida i molti o è trascinato dai molti, perché ne asseconda i desideri? 


Come se ne esce? Per Socrate bisogna indagare sulla parola, questo soffio d’aria inconsistente che tuttavia serve a guidare, orientarsi, convincere. Il potere della parola – che va bene, è una frase standard che gli scrittori invitati ai talk ripetono a menadito, senza sottolineare la faccia sporca della medaglia: la parola è anche inganno. 


I greci nella loro lunga indagine ce l’hanno detto e ridetto, Ulisse non era bello ma sapeva parlare, il buon vecchio Nestore, nell’Iliade, che sì, va bene, combatteva, tosto com’era ma in fondo molto saggio, visto che dominava come nessun altro l’uso delle parole: che cadono come fiocchi di neve, diceva Omero, per sottolinearne l’incisività – il meccanismo per cui le parole fanno così effetto, calmano o aizzano è studiato da tempo e i risultati sono inquietanti. 

 
E tuttavia poi finisce sempre allo stesso modo, la parola entra in circolo, calma o aizza gli animi, e alla fine è difficile capire se il demagogo sta parlando perché guarda ai fatti, insomma usa un metodo di misura o al contrario sta parlando per compiacere gli altri, ignorando i fatti, e puntando solo a ricavare potere sfruttando gli altri. Un po’ come molti degli opinionisti dei talk, la sparano grossa e magari vengono criticati o al contrario amati, perché il tal dei tali dice quello pensa. Tutto questo si traduce in uno spot che illumina l’opinionista e lo fissa nell’immaginario catodico e quindi tu autore se ti dicono chiamiamo uno per alzare lo share guardi quello che indica la luce. Certo, dici anche: è un coglione, ma ci fa gioco, ci serve.

  

 

Come si fa a impedire che la circolarità tra chi parla e chi ascolta diventi fonte di pericolo e di cattiva politica? Ci vuole un metodo, e ovviamente Socrate non ha nessun dubbio in proposito: democrazia? Significa educazione alla parola. Perché parola e politica sono  strettamente legate

  
Come si fa a impedire che la circolarità tra chi parla e chi ascolta diventi fonte di pericolo e di cattiva politica? Ci vuole un metodo, e ovviamente Socrate non ha nessun dubbio in proposito: democrazia? Significa educazione alla parola. Perché parola e politica sono così strettamente legate che se non si affronta il dilemma, il dilemma ci bloccherà per sempre. Cos’altro è il pensiero Socratico e cos’altro sono i dialoghi platonici se non un tentativo di imparare a ragionare? Di educare al dialogo? Se questi problemi erano evidenti, comunque presenti allora, quando Atene ospitava meno di 30 mila persone, quando alle assemblee cittadine – racconta Tucidide – partecipavano 5 mila persone (mentre al teatro andavano tutti), pensate come gli stessi problemi sono cogenti, pressanti, snervanti, oggi che ci relazioniamo con 8 miliardi di cittadini, pure se abitiamo nel piccolo borgo antico di crepuscolare memoria.


 Certo, gente che mai vedremo eppure queste invisibili presenze costruiscono la rete che ci avvolge, la nostra decisione è un effetto domino, pensate alle decisioni altrui su noi stessi. Dunque, più che mai è indispensabile ogni volta che deliberiamo, pure per una questione condominiale spicciola, guardare alla moltitudine che ci circonda. Questo lo sappiamo anche se durante la giornata facciamo i buffoni e declamiamo che io so e quindi me ne frego delle prove, io parlo come mangio e quello che ho dentro dico. 


Ma nelle notti di insonnia no. Accade che, dopo la sbornia dei talk, ci sentiamo angosciati, nudi e feriti dall’eccesso di parole e desideriamo recuperare non dico il senso, ma seguire un metodo per validare quello che pensiamo. Validare ciò che pensiamo è l’altra urgenza di cui non ci preoccupiamo. E ci credo siamo troppo presi a intervenire in ogni dove per dire la nostra. Vero, scontiamo millenni di anonimato. Forse siamo desiderosi di riscattare dall’oblio i nostri antenati, forse. Certo se fosse così, avremmo qualche ragione dalla nostra.


Giusto qualche dato. Quando Napoleone terminò con la sconfitta a tutti nota la sua epopea, nel mondo c’era solo un miliardo di persone, di cui l’85 per cento analfabeti e il restante, ricco, aristocratico, nobile, proprietario terriero, preti e affini e tutti tra l’altro con tendenze schiavistiche. Quando fu fatta l’Italia non fu fatto di certo l’italiano: uno su dieci parlava l’italiano, gli altri facevano parte della grande galassia dell’italiano regionale, a volte anche dell’italiano paesano, visto che tra le diverse regioni si faticava a comprendersi. Mio nonno – tanto per dire la mia – classe maledetta, 1899, poverino fu coscritto e istradato per l’Isonzo che nemmeno aveva 18 anni. Fece il viaggio con quattro contadini più poveri di lui, senza nemmeno le scarpe adatte e infatti si congelò le dita dei piedi: tre di queste gli furono amputate. 

   

Ma i cahiers de doléances non finiscono qui, perché appena arrivati un tenente piemontese ordinò alle giovani reclute pronte per l’inferno della trincea di non bere l’acqua di un torrente, perché gli austriaci l’avevano avvelenata. Mio nonno insieme ad altri bevve lo stesso e il tenente si fece afferrare per pazzo, minacciò di mandarli alla corte marziale per disobbedienza. Sospettava un accesso di furbizia: questi preferiscono avvelenarsi che andare in trincea, ma poi il tenente in un sussultò di umanità capì una cosa che gli era sfuggita un attimo prima, durante la sfuriata: i nostri contadini meridionali non avevano disobbedito agli ordini, non li avevano capiti. Parlavano un dialetto stretto, un campano sui generis. Sembra una di quella classiche storie da non raccontare perché mortificante, ma poi è una storia comune, e meno male che altri meglio di me hanno raccontato storie simili. Prendi Federico De Roberto che nel suo racconto La paura, di questo parla, di uomini in trincea che vanno a morire per un ordine che nemmeno capiscono.


Generazioni e generazioni di anonimi contadini usati per far la guerra, accadeva ad Atene, anche se lì, per disposizione di Pericle, gli ateniesi almeno durante la guerra con Sparta si barricarono dentro le mura della città, lasciando che gli spartani si sfogassero e distruggessero i campi: gli alberi ricrescono, le teste no, è un detto di Pericle. 


Ma immaginate il dolore dei contadini, immaginate di tornare su terre distrutte e ricominciare con santa pazienza, sanare le ferite, arare e concimare, pure in fretta e con la consapevolezza che buona parte del raccolto serviva a ingrassare potenti di turno e soldati che marciavano in battaglia: un circolo continuo, capite l’importanza della democrazia? 


 Questa era la vita fino a pochi anni orsono, questa è stata la vita anche di mio nonno, morto nel 1974, appena un anno dopo la prima crisi petrolifera e le famose domeniche di austerità. Storie rimaste anonime, racconti sussurrati o confessati quanto era troppo tardi, come del caso di mio nonno che raccontò la vicenda dell’ordine non capito sul letto di morte, in un languido delirio premorte, e aggiunse altri particolari in cronaca come la rotta di Caporetto e quella fuga che si concluse però poco dopo, quando i resti della compagnia, sciolti i ranghi, lasciati alle spalle gli orribili ordini di Cadorna (meno male che c’era Gadda a raccontare quei giorni di ottobre), la compagnia in fuga, appunto, si fermò vicino a fossi di bonifica, per tirare fuori dall’annegamento cavalli e muli che i soldati in rotta avevano abbandonato: i cavalli che c’entrano, si chiesero? Proprio quei cavalli utilizzati come schiavi nei campi, quei muli presi a pugni perché si impuntavano, ora proprio in quegli occhi spaventati degli animali i soldati vedevano la loro ultima trincea: gli austriaci non prenderanno questi cavalli. Così disse mio nonno nel deliquio premorte, insomma quando era troppo tardi per farla diventare opinione, rimase una confessione sul letto di morte.


Quindi se la mettiamo su questo piano, abbiamo ragione a dire la nostra ad alta voce, non abbiamo certo il desiderio di aspettare di chiudere gli occhi per dire cosa pensiamo, siamo scesi dal letto di morte molto prima del tempo e urliamo a pieni polmoni: quello che penso dico. Abbiamo dunque, se la mettiamo su questo piano, una larvata giustificazione per fregarcene del metodo socratico, insomma, dài, parlo senza badare alle conseguenze, perché per millenni sono stato zitto e ora è il momento di sfogarmi. 


Ma giustificazioni a parte il dilemma resta, anzi si fa più teso, quasi insostenibile e infatti senza che fate i buffoni e gli intellettuali e i critici di sistema, perché anche voi come me non ce la fate più ad appassionarvi alla politica, al massimo vi intrattenete con la politica. Siamo tutti consapevoli in certe notti angosciose che così, di questo andazzo, la democrazia prima o poi collassa. Sì, per eccesso di parole smisurate, parole sempre più gonfie d’aria che volano via senza tornare indietro, senza il necessario effetto sonar, uno strumento di orientamento. Non ce la possiamo fare, non ci capiamo più niente. Sì, certo, chi lo nega, i passi avanti sono visibili, e lasciano traccia, ma ai nostri passi se ne sono aggiunti miliardi e il sentiero è pieno di impronte: chi le capisce ormai? 


Fatti i conti, non siamo così diversi da mio nonno alle prese con gli ordini del tenente piemontese e dunque interrogati su questioni sensibili ci rendiamo conto che quello che sappiamo deriva dal sentito dire, non un granché per svolgere il lavoro del democratico. E c’è di peggio, non vogliamo capire, approfondire, vogliamo sollazzare il nostro elettore, gonfiare la nostra bolla, va bene tutto, ma risparmiatemi la sofferenza di perdere un solo like. 


Prima c’era Pericle che decideva e Socrate che si interrogava se lo statista in chief aveva letto e raffinato il sentire popolare e dunque deciso e deliberato o aveva corrotto il dibattito, per ricavare dai bassi istinti del popolo il potere assoluto. Se prima c’era Pericle ma pure Socrate, ora la situazione è peggiorata perché chi più chi meno è convinto di avere un io autentico a cui fare riferimento. Chi più chi meno è convinto di annoverare tra i propri pregi la sincerità, assecondando così la sensazione di essere nel giusto: non devo mica analizzare quello che penso, anzi, semmai convincerei gli altri a suon di sofismi. 

 

Ora che qualcuno di noi ha capito – e in certa notte angosciose ne ha la certezza cristallina – che il nostro io autentico è una bella invenzione narrativa, che la nostra mente è piatta, l’unica cosa veramente piatta dell’universo, e dunque sotto sotto non c’è niente. Ora che qualcuno ha capito, e ce lo va dicendo a rischio di bere la sua dose di cicuta di insulti quotidiani, che: ma di quale antropocentrismo andiamo cianciando, siamo così bacati che basta un bias per farci fare una scelta sbagliata che tra l’altro ci causerà infelicità permanente. Così fragili che pensiamo di scegliere facendo leva sulla volontà perché ascoltiamo il motivatore su TikTok che ci ripete come una nenia: volere è potere (fornendo dati su dati sensibili a ByteDance) e invece magari è stata una musica ascoltata da qualche radio, o un sommovimento interiore di varia natura, o un’azione congiunta della flora intestinale a farci prendere una direzione inaspettata, come del resto il buon Joyce ci ha mostrato, direi in maniera chiarissima. 


O infine perché dopo un’accesa confabulazione con noi stessi ci siamo aggiustati la storia a nostro vantaggio. Ora che sappiamo tutto questo e come mio nonno ci vergogniamo di queste storie e aspettiamo un momento di intimità per confessare a chi ci è vicino una profonda quanto nascosta verità: non ci ho capito un cazzo nella vita. 


Ora che il famoso peso del passato non è una metafora, tanto meno una forza come dicono i poeti, anzi, al contrario, è una cosa fisica, una rete neuronale funzionante, con il suo pattern che per cambiarla ci metti anni, altro che volere è potere che i motivatori ci ripetono indispettendoci, e magari sì, a volte qualcosa cambia ma se già sul letto di morte in deliquio, troppo tardi, insomma. 


Ora che il mondo è complesso e per quanti sforzi tu possa fare, anche se sei acculturato e te ne vanti, anche se hai dimenticato i parenti contadini e spesso vai al mercato giallo della Coldiretti per ritrovare il gusto della natura (altro bias fortissimo), per quanti sforzi tu possa fare non ci capisci niente, dunque è molto probabile che il Pericle di turno o più probabilmente il capo condomino cazzaro semplifichi il tutto per non farti perdere tempo o farti credere che stai pensando. 
Ora che tutto questo è realtà, voi che guardate i talk (ma sotto sotto li odiate) voi che votate per le primarie, voi che parlate di geopolitica e non sapete quante sono le regioni italiane, voi che confondete cause con effetti, voi ipocriti come me, ora mi spiegate come risolvere il dubbio socratico? 


Una soluzione? Certo, a questo punto parliamone. Facciamo scegliere al caso. Guardate, non fate gli snob, gli intellettuali, gli gnorri che tanto come me non ci capite niente del mondo e messi alle strette vi arrampicate sugli specchi, sfruttando al meglio le potenzialità della nostra mente piatta, altro che io interiore da disseppellire e fargli prendere l’applauso e la luce. 


Siamo deboli, non ci capiamo più di tanto, quindi scendiamo dal trono dell’io autentico e affidiamoci al caso, un sistema più sicuro. Il risultato, poi, migliore di quello ottenuto dopo ore e ore di talk con la compagnia di giro appositamente creata dagli autori televisivi che alle 10 di mattina dopo la pubblicazione dati Auditel si devono inventare qualcosa per non perdere quel punto e mezzo – che poi iniziano i commenti su Twitter e chi li sente gli inserzionisti? 


Il caso non è un metodo nuovo, anzi veniva usato già dai Greci nei loro esperimenti democratici, forse è il momento di riprenderlo a aggiornalo introducendo anche l’intelligenza artificiale. Al tempo funzionava così: gli antichi ateniesi usavano un kleroterion, ovvero una lastra di pietra con una griglia di fessure per selezionare i giurati partendo da un gruppo di volontari. I volontari erano scelti dalle 10 tribù. Il sistema a sorteggio basato sul kleroterion permetteva di scegliere i giurati a caso la mattina stessa del processo, riducendo così al minimo il rischio di corruzione. Un sistema molto semplice, un sorteggio elementare. 
Ora, spiegatemi per quale ragione, visto che siamo come siamo, non dovremmo affidarci anche noi alla dea fortuna? Si tratta di selezionare cittadini nella maniera più equa possibile, in modo da formare gruppi decisionali che per il tempo necessario ascolteranno tutto quello che si sa, in maniera fattuale, considerando costi e benefici, su una questione sensibile. Dopo di che decideranno. 


Cos’è, non va bene? Siamo troppo umanisti e ci piace l’uomo di Vitruvio che misura il mondo? Veramente? Ci giudichiamo così razionali da poter davvero considerare l’ipotesi della democrazia diretta? Noi che se messi alle strette ci arrampichiamo sugli specchi pure se si tratta di rispondere a quante sono le regioni italiane? E quelle con statuto autonomo? Davvero noi uomini figli di Vitruvio pensiamo di deliberare su questione complesse? Ma dài, che presunzione, che arroganza. 

 

Assemblee di cittadini formate da gruppi scelti a caso, in Germania, in Francia, nel Regno Unito hanno stabilito le vie per ridurre le emissioni di CO2. Il caso è fondamentale nella scelta. Perché così i partecipanti non sono soggetti a intrighi di partito e sono meno sensibili agli influencer che infestano i talk

  
Pensate invece alle assemblee di cittadini, formate da gruppi scelti a caso che, in Germania, in Francia, nel Regno Unito, in questi anni, dopo aver ricevuto tutte le informazioni necessarie in un tempo congruo, hanno stabilito le vie per ridurre le emissioni di CO2. Il caso è fondamentale nella scelta. Perché così i partecipanti non sono soggetti a intrighi di partito e sono meno sensibili agli influencer che infestano i talk, e dunque possono, con la necessaria volontà, praticare l’educazione alla parola, quella via tortuosa ma necessaria della conoscenza e della metodologia, e diciamolo, tanto siamo alla fine del saggio: all’epistemologia. 
Tutto sta, ovvio, capire come scegliere i volontari in maniera equa. Una cosa è Atene del V secolo, dove se la cavavano con una pietra fessurata e delle biglie, una dorata e una bianca con cui si selezionavano o si escludevano i volontari, una cosa è Roma del Terzo millennio. Ma immaginate le potenzialità. A parte che si abolirebbero i talk, che già sarebbe un vantaggio per l’universo intero, un modo sottile per opporsi al secondo principio della termodinamica, ma nella sostanza, si potrebbero selezionare assemblee che rispecchiano davvero la popolazione, una proprietà che i teorici della politica chiamano rappresentanza descrittiva. Faccio per dire, un’assemblea di solito conta un numero pressoché uguale di uomini e donne (e si stanno studiando metodi per includere persone non binarie), mentre nel 2021, dopo tanti talk e tanto blaterare di democrazia, la media mondiale dei seggi occupati dalle donne nei parlamenti nazionali si è attestata intorno al 26 per cento. 

 

I criteri di scelta per validare una buona selezione stanno impegnando molti statistici e matematici: ci vogliono buoni algoritmi. Ah, parola maledetta. Ma quando parliamo di alcuni filosofi greci in fondo descriviamo dei naturalisti metodologici, anche loro erano alla ricerca del buon algoritmo per avviare una saggia deliberazione

 
I criteri di scelta per validare una buona selezione stanno impegnando molti statistici e matematici: ci vogliono buoni algoritmi. Ah, parola maledetta, fredda e meccanica. E vabbè, quelli come Gramellini saranno in disaccordo, ma appunto, quando parliamo di alcuni filosofi greci in fondo descriviamo dei naturalisti metodologici, anche loro erano alla ricerca del buon algoritmo per avviare una saggia deliberazione. Qui l’algoritmo è ancora più necessario. Prendiamo la Climate Assembly U.K. formata nel 2019 per discutere sulle misure necessarie per abbassare le emissioni di CO2. Gli organizzatori hanno scelto 110 membri selezionati in modo casuale e tenendo conto di sette caratteristiche: genere, età, distribuzione geografica, istruzione, etnia, residenza (se in area urbana o rurale) e idee sul clima. Non è facile, ci vuole un buon algoritmo. In genere si usa quello che in gergo viene chiamato algoritmo avido. Nella sostanza, se l’algoritmo trova che c’è una mancanza in una determinata fascia, per esempio nel gruppo di quelli che vanno dai 30 ai 40 anni d’età, seleziona a caso un volontario e lo aggiunge a quella fascia. 


Bene, proprio studiando l’algoritmo avido si è capito che questo sistema rischia di sacrificare una qualità fondamentale per la buona scelta dei volontari: e cioè non soddisfa appieno il criterio dell’equità. Ci sono molti gruppi di lavoro (uno, per esempio, particolarmente promettente, capitanato ad Ariel Procaccia, dell’Università di Harvard) che cercano di mettere a punto algoritmi open source non avidi per selezionare in maniera equa e dunque casuale dei volontari. Disposti ad ascoltare, imparare e infine deliberare, e non a parlare per il like e l’ospitata in tv. 


La democrazia necessità di matematici e visto che ci siamo e stiamo dibattendo più spaventati che informati, prendiamo anche in considerazione l’intelligenza artificiale. L’IA non ha corpo, quindi non ha desideri, e non vuole conquistare il mondo come noi umani e nemmeno è propensa a inventare storie che aizzano o consolano. Dunque, con l’IA si può fare a meno del demagogo di turno. 


Se ci impegniamo in una sacrosanta opera di conoscenza e di autocoscienza, se ci togliamo dal trono che tra l’altro è pure volgare con tutti quei fronzoli dorati, se ci impegniamo a dare il meglio di noi, potremmo democraticamente (e con un occhio a chi detiene i dati) disegnare l’IA di modo che diventi il nostro filosofo quotidiano, il Socrate di cui abbiamo bisogno, l’educazione alla parola, l’epistemologia necessaria per correggere e imparare dai nostro errori, quelli naturali e specifici, quelli  che va bene ci rendono umani ma non necessariamente capaci di autogovernarci. 


Ps. ah, poi magari liberati da alcuni pesi o chiariti aspetti della nostra natura, con l’aiuto dell’algoritmo e dell’IA, potremmo anche finalmente dedicarci alla democrazia che è come il concetto di bello di leopardiana memoria, caotico e indefinito, e dobbiamo imparare dunque a naufragare nel mare, ne va della nostra felicità.
 

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