Ucraina, Africa e Bruxelles. Perché Meloni ha tre fronti d'attrito con Scholz e Macron

Valerio Valentini

L'incontro positivo tra Crosetto e Lecornu apre un'incognita sui prossimi mesi di guerra. Il Piano Mattei e il rischio di isolamento segnalato da Monti. L'accordo tra Popolari e Conservatori, che porterà FdI in conflitto con Scholz e Macron. Intanto Francia e Germania si muovono sui piani industriali europei: a Palazzo Chigi vige il mutismo

Non irrilevanza. Semmai, “un'altra via al protagonismo”. A Palazzo Chigi la sintetizzano così, la strada che la diplomazia di Giorgia Meloni sta battendo. Non gregaria di Francia e Germania, ma autonoma. “Si può collaborare con tutti, ma in regime di reciprocità”, dice Guido Crosetto, ministro della Difesa che finora ha presidiato il fronte geopolitico che è, al contempo, il più delicato e il più saldo, per l’Italia. Perché i rapporti tra la premier e Volodymyr Zelensky sono buoni e perché la tabella di marcia, nel sostegno a Kyiv, è definita altrove ed è in larga parte obbligata. E di questo bisognerà ricordarsene soprattutto nei prossimi mesi, quando l’assistenza alla resistenza ucraina imporrà nuovi e più risoluti impegni: e anche certe astuzie nella distinzione tra armi offensive e difensive andranno accantonate. Lo si è capito anche oggi, nel corso dell’incontro a Roma tra Crosetto e il suo omologo francese, Seb Lecornu.

Lo si è capito perché, a dispetto di toni cordiali che segnalano un’intesa che va ritrovandosi, tra Palazzo Chigi e l’Eliseo, dalla delegazione transalpina filtrava un certo fastidio per il ritardo con cui si è arrivati a un accordo – quello sull’invio congiunto della contraerea Samp/T – a cui Parigi, pare, era pronta fin da ottobre. Ma c’è di più. C’è che Lecornu, anche in virtù del passo in avanti compiuto da Olaf Scholz coi suoi Leopard, non esclude di dovere a breve provvedere all’invio dei carri Leclerc, quelli di terza generazione. Il che imporrebbe anche all’Italia di dismettere doppiezze e infingimenti sulla natura “difensiva” delle armi inviate a Kyiv. Anche perché all’ambasciata americana non sembrano aver gradito troppo l’ansia con cui il nostro ministero della Difesa s’è affrettato a precisare che “l’artiglieria italiana” di cui Joe Biden aveva parlato in conferenza stampa era in realtà solo “artiglieria antiaerea”, col corredo di polemiche connesse. Quasi che Crosetto – nell’ansia di rinfacciare a Giuseppe Conte la sua oggettiva ipocrisia sul tema – volesse rimproverare le scelte precedente prese dal governo Draghi d’intesa con gli alleati della Nato. E i continui distinguo della Lega e di Forza Italia – che con Maurizio Gasparri è arrivata ad accusare “Usa e Germania di alimentare l’escalation”, manco fosse Di Battista – fanno il resto. 

Ma se il sentiero ucraino resta tracciato, pur nella fluidità dei processi decisionali, è quello più strettamente europeo che pone delle incognite. Francia e Germania, pur in un clima tutt’altro che disteso, hanno trovato una comunione d’intenti concreta sul dossier che più di tutti sta a cuore a Macron: quello del piano industriale comunitario in risposta all’Inflation reduction act americano. L’Italia, al momento, resta afona in questo dibattito. “Ma è perché in questo momento l’agenda della Meloni è concentrata su altre priorità”, dicono a Palazzo Chigi. La prima, a quanto pare, riguarda “il riaffermare la vocazione mediterranea della nostra nazione”. Di qui la velleità del Piano Mattei, e il viaggio in Algeria, e l’attivismo nei Balcani e la missione in Libia. Un’ambizione certo sincera, e che però è forse troppo arrembante, almeno a giudizio di chi, come Mario Monti, ha avuto modo di ricordare a Meloni che “forse converrà all’Italia, anziché sforzarsi di portare l’Europa su un nuovo progetto dichiaratamente italiano, cercare piuttosto  di mettersi in una posizione il più possibile efficace e autorevole nei tanti progetti che già l’Unione  ha per l’Africa?”. Perché il rischio, in questo senso, è che “denominare in modo troppo nostro nuovi progetti può dare ai nostri partner un tranquillizzante stato d’animo del tipo: sì, fate voi. Com’è avvenuto, ad esempio, per Mare Nostrum”.
  
D’altronde gli eccessi di zelo possono rivelarsi, per Meloni, scivolosi anche su un altro piano della sua strategia europea, questo tutto politico. Perché il disegno di spostare a destra l’asse del Ppe, promuovendo un accordo strutturale con quel Partito dei conservatori di cui lei è presidente, è più concreto di quanto non si creda, se perfino Silvio Berlusconi ne ha parlato, in una recente riunione, con toni preoccupati. Ma non è tanto l’eventuale interdizione del Cav., a complicare le cose. Né forse lo sono le manovre di Matteo Renzi, che in quella svolta a destra dei Popolari un po’ ci spera “così si aprirà uno spazio al centro ancora più ampio per chi guarda a Renew, in Italia e non solo”. Semmai, il problema, ancora una volta, riguarda i rapporti della Roma patriota con Parigi e Berlino. Perché tanto più il progetto dell’accordo tra Ppe ed Ecr prenderà quota, e tanto più a promuovere questo accordo sarà Meloni, tanto più la premier si allontanerà, in vista delle elezioni europee del 2024, dall’asse di Macron e Scholz, che restano garanti di quella grande coalizione europeista che guarda alle ali estreme, sia a destra sia a sinistra, con grande ostilità. Per dire di come le vie alternative al protagonismo, pure quelle lastricate di buone intenzioni, siano sdrucciolose assai.
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.