(foto Ansa)

Il governo Meloni e il tramonto dei retroscena

Claudio Cerasa

Per la prima volta c’è un esecutivo che ha zittito i cercatori di trame nascoste. Ragioni? Una maggioranza forte, che litiga senza nascondersi, molti affari correnti e poche grandi riforme su cui dividersi. Indagine su una svolta

La lettura attenta e minuziosa delle cronache dei giornali, nei primi tre mesi del regno meloniano, ci consegna una piccola ma significativa verità che più passa il tempo e più è difficile da negare. La verità, o almeno il fatto che dinanzi ai nostri occhi si presenta come tale, è che per la prima volta da molti anni a questa parte il governo che abbiamo di fronte non è un governo che si adatta al retroscenismo politico. Il retroscenismo, come sapete, non è un filone che appassiona questo giornale ma negli ultimi anni bisogna dire che il retroscenismo, almeno sui grandi giornali, è diventato un genere letterario a volte persino appassionante. Per i non esperti, di solito funziona così. Seleziona una possibile faglia all’interno di un partito, all’interno di una coalizione o all’interno di una maggioranza. Visualizza all’interno di quella faglia quali sono i politici maggiormente notiziabili. Cerca di raccogliere a microfoni spenti l’umore dei politici maggiormente notiziabili. Individua quali possono essere alcune personalità con cui parlare vicine ai politici maggiormente rappresentativi all’interno di quella faglia. E usa le informazioni raccolte per descrivere trame politiche a volte vere a volte presunte, che essendo classificate come retroscena non ufficiali il più delle volte non potranno essere neppure smentite dai diretti interessati. Nel migliore dei casi, a volte capita, il retroscena serve a impacchettare una notizia di cui si è certi ma di cui non si hanno sufficienti elementi probatori, per così dire. Nel peggiore dei casi, e capita spesso, il retroscena serve a far finta di avere una notizia non smentibile anche quando la notizia non c’è.

 

Se fossimo retroscenisti, vi diremmo che il retroscena vero di questo inizio di legislatura è che i retroscena sono improvvisamente spariti dalla cronaca quotidiana e sono spariti non perché i retroscenisti sono stati prepensionati ma perché le caratteristiche di questa maggioranza di governo rendono la scena infinitamente più interessante del retroscena. Il primo motivo è quasi ovvio: per la prima volta da molti anni a questa parte, per la prima volta dal 2008, la maggioranza di governo è forte, ha numeri solidi per governare e pur essendo una coalizione, e le coalizioni si sa che sono fatte apposta per mostrare faglie e linee di rottura, non vi sono indizi per pensare che da qui alle europee del 2024 vi possa essere un qualche intrigo di palazzo capace di offrire legna per il camino del retroscenismo. Tutto accade sulla scena, evidentemente, e anche quando un partito della maggioranza deve mandare a quel paese un partito che fa parte della propria maggioranza tutto accade alla luce del sole (i bigliettini del Cav. vengono fotografati al Senato, non trovati in un cassetto), tutto accade a viso aperto (la scorsa settimana sul Foglio il ministro Lollobrigida ha mandato a quel paese gli alleati, sulle accise, e nello stesso giorno il vicepresidente della Camera, Mulè, ha definito la premier “logorroica”, per dire quanto la scena abbia preso il posto del retroscena). E tutto questo succede perché la maggioranza, mai come oggi, sa che con un’opposizione così divisa, così malmessa, così minoritaria il massimo che potrebbe capitarle non è un ribaltone ma è un allargamento dell’attuale maggioranza (ops!).

 

E dunque, in questo contesto, le trame diventano meno fitte, le faglie diventano meno traballanti, le cospirazioni diventano meno verosimili e i giochi di palazzo diventano solo un ricordo del passato o una proiezione di sogni futuri. Dipende da questo, il tramonto passeggero del retroscenismo, ma dipende anche da un altro fattore interessante, che promette di essere uno degli elementi da studiare nella stagione di governo meloniano: l’assenza di un progetto riformista dai tratti divisivi. Certo, sì, il presidenzialismo, qualunque cosa significhi, e non lo sa nessuno, promette di essere un progetto divisivo, così come promette di essere un progetto divisivo l’autonomia differenziata, che al momento ha più sostenitori nell’opposizione (mezzo Pd) che nella maggioranza (Forza Italia, specie nella influente componente di Forza Calabria, è contraria e lo sono anche gli amministratori locali di Fratelli d’Italia). 


Ma riforme istituzionali a parte, il tratto curioso del governo Meloni coincide proprio con la presenza di uno stato di necessità che promette di essere uno dei punti di forza della maggioranza anti retroscenisti. Uno stato di necessità all’interno del quale il governo è chiamato non a riformare l’Italia con poderose rivoluzioni politiche ma a occuparsi della manutenzione di progetti già avviati, ragione per cui, spesso, la maggioranza di centrodestra è costretta a offrire agli elettori, e ai cronisti, qualche bandierina su cui scannarsi e su cui costruire polemiche. Nel palinsesto del governo Meloni c’è attenzione alla riduzione del debito, c’è attenzione all’indipendenza energetica, c’è attenzione all’attuazione del Pnrr, c’è attenzione al rispetto dei trattati europei, c’è attenzione alla risoluzione di alcune complesse partite industriali e all’orizzonte, in verità, si indovinano poche riforme in grado di far nascere tensioni nella maggioranza. Non c’è una riforma del lavoro alle porte, già fatta. Non c’è una riforma delle pensioni all’uscio, già passata. E anche la tanto invocata liberalizzazione dei servizi pubblici locali, uno dei punti cruciali della famosa lettera inviata nel 2011 al governo Berlusconi dalla Bce, è stata inserita nel pacchetto della legge sulla Concorrenza approvata in sordina alla fine dello scorso anno dal governo Meloni.

Resta il fisco, naturalmente, che sarebbe la grande riforma che potrebbe prendere vita in questa legislatura, sulla giustizia siamo eccitati dalle proposte garantiste di Nordio ma l’esperienza ci insegna che ogni grande rivoluzione annunciata sulla giustizia spesso si trasforma in una grande delusione ed è meglio non farvi affidamento eccessivo, ma per il resto la forza del governo Meloni è quella di essere una maggioranza ampia, robusta, litigiosa cum grano salis, senza alternative e senza avere di fronte a sé grandi riforme in grado di poter destabilizzare il quadro politico. Il trasformismo, nel recente passato, ha contribuito a riformare il paese, e non c’è grande riforma italiana che non sia nata a seguito di una qualche pazza alchimia parlamentare, vale anche per il Pnrr, ma una stagione caratterizzata da un improvviso stato di necessità promette di offrire all’Italia una stabilità diversa dal passato. Una stabilità, almeno fino al 2024, fatta di manutenzione, di solidità e di continuità. Un incubo per i retroscenisti, un sogno forse per gli investitori.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.