(foto LaPresse)

La lotta in Forza Italia

Micciché si dimette dal Senato e indossa l'elmetto contro Schifani

Paolo Mandarà

L'obiettivo è usare le prossime Amministrative come terreno di sfida e di conquista, per riguadagnare spazio all'interno del partito in subbuglio. Laddove Berlusconi non è ancora intervenuto

Non s’era mai letto che un fedelissimo di Berlusconi rinunciasse a una carica elettiva al Senato, il massimo del prestigio, e rimanesse a Palermo, dicendosi pronto a indossare l’elmetto per difendersi dai “nemici interni” di Forza Italia. Eppure è successo. Protagonista di questo epilogo è Gianfranco Miccichè, che dopo aver fatto le bizze al momento dell’elezione di La Russa (quando 16 parlamentari di FI si sono astenuti) e aver guidato i “falchi” a una rimostranza organizzata contro l’influenza di Meloni e FdI, ha lentamente fatto scorrere i titoli di coda sulla propria esperienza a palazzo Madama.

 

L’ex viceministro all’Economia e al Mezzogiorno, oggi commissario azzurro in Sicilia, consegnerà le dimissioni al presidente della giunta per le elezioni del Senato, Dario Franceschini, prima di tornare a dedicarsi anima e corpo alla battaglia interna al suo partito, culminata nella clamorosa spaccatura di Forza Italia nell’Isola. Oggi al parlamento siciliano convivono due gruppi: uno, quello “ufficiale”, fa capo allo stesso Micciché, che è anche detentore (legale) del simbolo; l’altro, assai più numeroso (dieci deputati contro tre) al presidente della Regione, Renato Schifani.

 

La tensione fra le due fazioni, mai sopita dall’insediamento di quest’ultimo (che ha escluso il ‘rivale’ da qualsiasi incarico di governo, diretto o indiretto), ogni tanto è rinfocolata dalle dichiarazioni di Micciché, che ieri di fronte alla platea di Palazzo dei Normanni, sede del parlamento più antico del mondo, ha spiegato la sua decisione di fare il deputato semplice a Palermo: “Uno dei motivi che mi ha convinto a rimanere in Assemblea regionale è che sento il bisogno, oltre al dovere, di difendermi”. Da chi? Ovviamente dai “nemici interni”, che in tutti questi mesi, mentre Micciché perdeva pezzi, si sono accaniti sui suoi resti: “Nessuno si è fatto avanti con un’offerta di pace - ha ricordato al Fatto il vicerè berlusconiano - Questi mi vogliono fare fuori, con modalità feroci, perché hanno paura che le liste, ora che si voterà a Catania e altrove, le farò io”.

 

Ed è proprio questo il punto: usare le prossime Amministrative come terreno di sfida e di conquista. Per riguadagnare spazio all’interno del partito in subbuglio, dove Berlusconi non s’è ancora deciso a intervenire. Ma le ferite da sole non si suturano, come dimostra l’ultimo siparietto: “Se lo mettano in testa: il simbolo ce l’ho io e solo Berlusconi me lo può togliere - ha detto Micciché - Chi vuole si faccia la sua lista. Ma non la chiami Forza Italia”. Schifani, da presidente in carica, non replica. Dopo aver sorvolato sugli auguri di Natale (inoltrati solo al Cav.), la linea resta quella della fermezza, come sottolineato dal suo braccio destro, l’assessore all’Economia Marco Falcone: “Penso che la gente e i nostri elettori si siamo stancati delle liti di retrobottega e dei teatrini della vecchia politica. Sono vicende a cui guardano solo pochi soggetti, per interessi specifici. Qualcuno dovrebbe farsene una ragione”. E le liste? “Come da sempre accade nel nostro partito, le decisioni spettano al presidente Berlusconi”.

 

Il quale, neppure per interposta persona, è mai intervenuto a mettere una buona parola. Il Cav. avrà capito che è una battaglia persa e, intervenendo, rischia di smantellare una buona fetta del consenso che FI – al 15% alle ultime Regionali – conserva nell’Isola, pur da affluenti che non convergono più. Su Miccichè, in queste ore, incombe un’altra burrasca da sventare: ossia l’ipotesi di cancellare dall’Ars il suo gruppo parlamentare, composto da appena tre deputati (da regolamento ne servirebbero almeno quattro). A decidere su un’eventuale deroga sarà il Consiglio di presidenza, diretto da un meloniano (e larussiano) doc: il giovane Gaetano Galvagno. “La scelta - rimarca Miccichè - non può dipendere dal fatto che un gruppo è antipatico al presidente della Regione siciliana: questa è la fine dell’Assemblea. L’Ars è libera o è condizionata dalla discrezionalità e dalla cattiveria del presidente della Regione?”. Messaggio recapitato. La lotta prosegue.