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Di rosa in rosa

Dalle rose dei ministri a quelle di La Russa per Segre. Cadono come petali i nomi per i ministeri chiave

Stefano Cingolani

È finita l’èra delle roselline selvatiche, adesso la politica si prende la sua rivincita

Datemi una rosa. Siccome ogni suo desiderio è un ordine, in via della Scrofa si danno subito da fare. Già dopo 24 ore la stanza che fu di Giorgio Almirante sembra una serra: rose bianche, gialle, rosse, purpuree, perfino nere (honi soit qui mal y pense). I solerti Fratelli s’aspettano caldi ringraziamenti, invece ricevono un gelido rimbrotto: grazie dei fior, ma cosa avete capito; nomi, voglio nomi per una governo di alto livello. Le rose vere, color perla, le ha offerte Ignazio La Russa a Liliana Segre, le altre sono in consegna senza perdere altro tempo. È la prima preoccupazione di Giorgia Meloni, fin dalla campagna elettorale quando chiedeva sotto sotto consiglio a Mario Draghi e si faceva briefare da Fabio Panetta. Col passare dei giorni, diventa una vera angoscia che la indispettisce e la sorprende persino: ha vinto nettamente la prova del popolo, possibile che adesso tutti si tirino indietro? Non tutti, certo, non i suoi che non sono mai stati al potere o che vogliono tornarci in carrozza né gli alleati affamati di rivincita a cominciare. Ma quelli che possono fare la differenza, sdoganare il governo più a destra della storia della Repubblica, fornire un passaporto per Bruxelles e Francoforte, garantire che “l’Italia resta” al di là dei suoi sussulti, come ha detto Draghi nel brindisi di commiato

  

La quadra, così la chiama Umberto Bossi, non è stata facile nemmeno per i presidenti delle due camere, figuriamoci per la composizione del governo. Nel 2018 trascorsero tre mesi prima di arrivare al Conte uno, in giallo-verde. Se si ripetesse una tale vacatio sarebbe un disastro, senza la legge di bilancio, con l’esercizio provvisorio, lo spread a 500 punti. Non lo vuole la Meloni, nessuno nel centrodestra intende suicidarsi prima di aver vissuto. Non lo vuole il Pd impelagato nella sua rifondazione (la terza o la quarta?). Forse lo spera Giuseppe Conte per proporsi come stampella a un governo nero, giallo e azzurro. Matteo Salvini tiene i piedi in due staffe, un po’ al governo un po’ all’opposizione, ma se sta fuori è fritto panato.

  

Chi ha la memoria lunga evoca i rituali della prima Repubblica e si chiede: se il popolo voleva la novità, che novità ha trovato? Il ricordo va all’86

   

“Ha rivinto la casta”, secondo Sergio Rizzo, co-autore del fortunato libro-manifesto. Gli anti-casta oggi non votano più per il M5s né per la Lega, non votano e basta (sono tra i quattro italiani su dieci che hanno disertato le urne), ma non per questo non vociano e non si agitano. Chi ha la memoria lunga evoca i rituali della prima Repubblica e si chiede: se il popolo voleva la novità, che novità ha trovato? Il ricordo balza all’anno 1986. Venerdì 21 novembre il ministro del Tesoro Giovanni Goria, con il via libera del capo del governo Bettino Craxi, convoca alle 20 e 30 in punto il Cicr, Comitato interministeriale per il credito e risparmio al quale sono invitati anche il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi e il direttore generale del Tesoro Mario Sarcinelli. Insieme a loro undici ministri del pentapartito: Clelio Darida, Filippo Pandolfi, Antonio Gava (Dc), Salverino De Vito, Rino Formica, Gianni De Michelis (Psi), Franco Nicolazzi e Pier Luigi Romita (Psdi), Valerio Zanone (Pli), Bruno Visentini (Pri). All’ordine del giorno le nomine dei vertici in banche importanti (dal Banco di Napoli al Banco di Sardegna e di una pletora di Casse di risparmio). La riunione comincia con un’analisi generale, ma tutti aspettano il piatto forte. Nel salone dove Quintino Sella stappò il suo Lessona per festeggiare l’unità d’Italia, entrano le rose. Dopo un primo vaglio dei candidati che fanno capo ai partiti del governo o sono indicati/raccomandati da lobby influenti, i mazzi diventano terne. A quel punto Ciampi e Sarcinelli vengono invitati a uscire. Attendono in anticamera fino all’una quando sono riammessi in sala. Alle 2 e 30 del mattino esce la lista di 108 presidenti e vicepresidenti. La Dc guadagna 12 casse di risparmio a danno dei socialisti e del centro laico; riesce a spuntarla anche alla Cariplo collocando Roberto Mazzotta ex segretario del partito che non figurava nella rosa di Bankitalia, ma sul quale si è impuntato Ciriaco De Mita gran capo della Balena bianca. Si disse che erano state rispettate le proposte della Banca d’Italia; c’è chi giura che il governatore uscì di propria volontà per delicatezza istituzionale salvaguardando l’indipendenza della banca centrale. Ma così funzionava la prima Repubblica. E la seconda? E la terza, quella che dovrebbe vedere un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo, un Charles de Gaulle o, chissà mai, una Evita Peron?

 

Ci sono rose da sempre coltivate in alto, roselline selvatiche che crescono ai lati delle strade e sono state colte un po’ a caso (tanto una vale una) nella scorsa legislatura, altre che spuntano nella terra di mezzo. Le rose di Mario Monti arrivavano dai londinesi Kew Gardens. Tutte confezionate dagli head-hunters, i cacciatori di teste. Il fiore più importante in realtà lo trovò già a palazzo Sella e solo dopo andò a Londra: Vittorio Grilli era direttore generale del Tesoro, divenne ministro ed è entrato anche lui nei mazzi sulla scrivania di Giorgia. Invece la professoressa Elsa Fornero, beffata a quanto pare dall’Inps, inciampò sugli “esodati”, è stata perseguitata fin da allora dalla Lega per Salvini premier (così si chiama il partito), fino a superare il confine dello scontro politico ed entrare in un territorio vicino allo stalking. Enrico Letta nel breve anno a palazzo Chigi s’era rivolto alla serra di via Nazionale. Da lì venne Fabrizio Saccomanni, il simpatico direttore generale della Banca d’Italia nominato ministro. Fu un misto di tecnici e politici con Emma Bonino agli Esteri, Angelino Alfano agli Interni, Anna Maria Cancellieri alla Giustizia, Enrico Giovannini al Lavoro. Le rose fiorentine di Renzi passarono al vaglio occhiuto del Gran Giardiniere che bocciò quella per la Farnesina quando si dovette sostituire Federica Mogherini nominata commissaria europea alla Sicurezza: a Giorgio Napolitano non andavano bene né la Belloni (di già) né Lia Quartapelle troppo giovane e inesperta, così la spuntò Paolo Gentiloni, salito poi a palazzo Chigi e sussunto a Bruxelles, passato da un ambito particolare ad uno generale. Allora era fresco il profumo di Maria Elena Boschi, mentre affilava gli aculei Carlo Calenda. E poi c’era Rosato (nomen omen) che ha seminato di spine la sinistra nel giardino dei supplizi chiamato rosatellum. Draghi non ha raccolto rose, ma tulipani (memore della madre o forse la nonna di tutte le crisi finanziarie), ha cercato il vecchio amico Francesco Giavazzi, i ragazzi degli anni 90 che avevano lavorato con lui al Tesoro, poi top manager, professori, scienziati, generali (come il benemerito alpino Francesco Paolo Figliuolo che è riuscito a far vaccinare gli italiani). Alla fine i partiti gli hanno portato i fichi d’India, ma nessuno è profeta in patria tanto meno se non c’è la patria come ci racconta Ernesto Galli della Loggia che guarda ai fratelli i quali almeno sono d’Italia (o così dicono).

  

Draghi non ha raccolto rose, ma tulipani, ha cercato il vecchio amico Giavazzi, i ragazzi degli anni 90 che avevano lavorato con lui al Tesoro

  

Oggi, la rosa più delicata e preziosa, la rosa Maria Callas, carminio scuro, deve spiccare nell’ufficio che fu di Quintino Sella. In due settimane sono state sfogliate dozzine di petali. Il primo, Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, la prima banca italiana, anzi di più la “banca di sistema”. Il suo nome non ha fatto in tempo a circolare sui giornali che è arrivata la smentita: no grazie, sto bene così. Poi Panetta: l’economista del bouquet Bankitalia, sostenuto da Draghi, cuore a destra-centro, ben introdotto nel mondo politico romano, è stato corteggiato fin dall’inizio e da allora è cominciato il tira e molla. Secondo l’agenzia Bloomberg ha rifiutato, per i giornali di destra non ancora, alcuni sostengono che aspetti l’incarico ufficiale a Giorgia Meloni. Una settimana, forse meno, poi si capirà. Intanto la rosa si arricchisce: c’è un Draghi boy come Dario Scannapieco, due ex ministri uomini di dottrina e di finanza, come Domenico Siniscalco e Vittorio Grilli, un banchiere come Gaetano Miccichè (Imi, scuderia Intesa), Luigi Federico Signorini direttore generale di Bankitalia, einaudiano di ferro, si tira fuori Daniele Franco che sulla carta sarebbe andato benissimo alla Meloni, senonché questo deve essere “il governo più politico di sempre”. Nella corolla Giorgia fa entrare Giancarlo Giorgetti che Salvini non vuole e può ingoiare se ottiene per sé un ministero dello stesso peso, anzi di più: vicepremier e gli interni, tanto per gradire. Così metterebbe sotto tiro H24 il governo e la nuova leader.

 

Le spine più acuminate sembrano quelle di Ronzulli. Il Cav., staccato il telefono a Gianni Letta, le avrebbe promesso un ministero importante

 

Non c’è rosa senza spine e le più acuminate sembrano quelle di Licia Ronzulli. Si dice che il Cav. dopo averle messo in mano il partito staccando il telefono a Gianni Letta, le abbia promesso un ministero importante, pare che sia la Sanità ma forse solo perché da giovane era infermiera. Una cortina fumogena, Berlusconi in realtà vuole la Giustizia (“e te’ pareva” direbbero i Fratelli romani) e lo Sviluppo per tutelare le imprese, ma sopratutto l’Impresa perché al Mise fanno capo le televisioni. I malevoli lo chiamano il riflesso di Gesualdo (Mastro don), fatto sta che tutelare “la roba” gli è riuscito spesso, direttamente o indirettamente assicurandosi che non ci fossero al governo personalità ostili. Fa testo Massimo D’Alema il quale nel breve e tempestoso periodo a palazzo Chigi nel 1999, proclamò Mediaset “un patrimonio nazionale” da difendere. Oggi manca solo il golden power. Si leva subito un grido: conflitto d’interesse. Tutti pronti per nuovi girotondi. Licia ha punto già il portavoce Antonio Tajani che si ritiene destinato alla Farnesina. Forse alla fine la spunterà, intanto con l’autunno che incede il suo petalo appassisce, mentre sono caduti già l’ambasciatore ed ex ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata ed Elisabetta Belloni, diplomatica e chief spy, già candidata al Quirinale da Giuseppe Conte, Beppe Grillo e Matteo Salvini (in rigoroso ordine alfabetico).

 

E l’energia? A chi affidare la poltrona più rovente dopo quella del Tesoro? Giorgia Meloni ha pensato a Roberto Cingolani: meglio che rimanga finché non passa la nottata. Il ministro scienziato ha altri progetti, pensa di aver fatto quel che poteva fare, ha toccato con mano la barriera dei no, gli ostacoli burocratici, il pulviscolo di micro interessi che copre interessi più grandi come quelli che vorrebbero restare comunque agganciati alla Russia. Così è saltato fuori Paolo Scaroni. Apriti cielo. Un fronte trasversale s’è parato sulla strada dell’ex amministratore delegato dell’Eni il quale ha già avuto la sua febbre siberiana quando nel 2006 firmò il mega contratto con Vladimir Putin. “Un passo fondamentale per la sicurezza energetica del nostro paese fino al 2035”, così disse il 15 novembre di quell’anno fatale. Per Carlo Calenda, mettere Scaroni all’Energia equivarrebbe ad avere “un amministratore delegato di Gazprom. E’ lui il maggior responsabile insieme a Berlusconi della nostra dipendenza dal gas russo”, ha scritto su Twitter. Ma nemmeno i Fratelli sono d’accordo: “Il nome è circolato, ma lo vedo difficile”, fa filtrare alle agenzie “una fonte qualificata”. L’autunno e l’inverno saranno freddi e bui anche se Cingolani garantisce che non mancherà il gas fino febbraio, poi ci vuole il rigassificatore di Piombino e bisognerà riportare alla ragione il Fratello che sbaglia, ossia il barbutissimo Fancesco Ferrari, il sindaco nero-verde che mette in imbarazzo la leader del suo partito nonché capo del governo in pectore. D’accordo, lo spettacolo non è granché, però non è certo la prima volta, stiamo assistendo a un copione che si ripete più o meno uguale con interpreti (quasi) diversi, proprio come nella commedia dell’arte. 

  

Poi le rose del sottogoverno. Alla Rai si prepara un bel mazzo, in primavera ci attende un gran giro di poltrone che contano

 

Le rose del potere non finiscono certo nel triangolo tra Montecitorio, palazzo Madama e palazzo Chigi. Ci sono infatti quelle del governo e quelle del sottogoverno. Alla Rai si prepara un bel mazzo. Si dà per certo che il Tg1 andrà a Gennaro Sangiuliano, ma “la voce del padrone” risuona da viale Mazzini a Saxa Rubra là dove Costantino sconfisse Massenzio e la destra prepara la propria rivincita. A primavera ci attende un gran giro di poltrone che contano: ce ne sono 61 tra vertici e consiglieri di amministrazione delle sei grandi società quotate in Borsa. Scadranno anche i consigli di Amco, Consap, Consip, Sport e Salute e Sogin per un totale di altri 16 posti che contano. All’Enav la società che controlla i voli, il vertice è stato scelto dal secondo governo Conte quando la pandemia aveva completamente messo a terra il trasporto aereo. L’ad Paolo Simioni (viene dalla infausta Atac, la società dei bus romani) si è trovato a gestire una delle fasi peggiori della società, con il crollo dei ricavi per la riduzione delle tariffe pagate dalle compagnie aeree. All’Enel i nove consiglieri d’amministrazione sono stati scelti nel 2020 dal secondo governo Conte, quello giallo-rosso. Il presidente, Michele Crisostomo, avvocato ed esperto del settore bancario, è al suo primo mandato. L’ad Francesco Starace, invece, è già al terzo, cominciato nel 2014 con governo Renzi, così come Claudio Descalzi all’Eni, il quale arriva al test del prossimo anno insieme alla presidente Lucia Calvosa. Il capo azienda ha previsto in tempo lo tsunami che ha travolto il settore del gas e del petrolio ed è lui ad aver aperto le porte ai fornitori alternativi alla Russia, da Algeri al Qatar. Come cambiarlo proprio adesso? Alessandro Profumo, nominato nel 2017 dal governo Gentiloni, ha risalito la china del gruppo della difesa il più strategico tra quelli strategici: adesso Leonardo si dovrà misurare con il non facile rilancio della Fincantieri del dopo Bono. Matteo Del Fante, il postino capo, è appena diventato presidente di Giubileo 2025, per gestire gli appalti dell’evento. La sua guida ha portato il gruppo nel settore dei pagamenti, dell’e-commerce, della telefonia, nella vendita dell’energia. Gode di una stima trasversale, come Stefano Donnarumma capo di Terna, sul quale puntano molto i Fratelli d’Italia alla ricerca di “tecnici di area”. 

 

“Non amo che le rose che non colsi”, scrisse Guido Gozzano nel più gozzaniano dei suoi versi (“Cocotte” il titolo della poesia). Al contrario, nel gioco del potere si amano solo le rose che vengono davvero colte. Ma non sempre è vero. Prima, quando sono ancora integre, nel loro tripudio di profumi e colori, attirano api e farfalle, una volta recise e messe nel mazzo, diventano ostello per mosche e parassiti. E la legge bronzea della politica è destinata a non cambiare.

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