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Il post voto

L'ansia americana di Giorgia Meloni dopo le parole di Joe Biden

Salvatore Merlo

Le dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti precipitano su una Meloni silente, al lavoro, consapevole che tutto si gioca negli Stati Uniti e della fragile amicizia transatlantica che caratterizza la sua politica 

Poiché sul serio ritiene che l’America sia la chiave di ogni cosa, anche del gioco europeo, poiché sa bene che i fondi speculativi statunitensi hanno comprato milioni di titoli di stato italiani, e poiché infine Giorgia Meloni pensa e teorizza da tempo che l’Italia possa trovare il suo spazio politico in Europa triangolando con gli Stati Uniti e facendosi largo così  tra Francia e Germania con le quali lei ha per adesso poche relazioni, ecco che fatalmente ogni sospiro, ogni refolo statunitense, ogni sussurro da oltreoceano le precipita addosso con la forza di un uragano e le impone di prestare attenzione, d’interpretare le virgole, come si dice.

 

E ieri lo sforzo interpretativo, per non dire esegetico, si è riproposto per via delle parole del presidente Joe Biden, che a un evento di raccolta fondi del Partito democratico americano, a Washington, ha detto: “Avete appena visto cosa è accaduto in Italia in quelle elezioni. Vedrete cosa accadrà nel mondo. Non potete essere ottimisti neppure su cosa accadrà qui”. Si trattava di un incontro elettorale, il riferimento del presidente era alla politica interna americana, e infatti Meloni e i suoi consiglieri non  si sono preoccupati più di tanto, dopo averci riflettuto. Anche perché la leader di Fratelli d’Italia sa di essere l’interlocutore che l’Amministrazione americana – diffidando sia di Matteo Salvini sia di Silvio Berlusconi considerati all’incirca come degli  amici di Putin –  si era scelto nel centrodestra italiano ben prima delle elezioni.

 

E a questo proposito fanno fede un certo numero di incontri privati a suo tempo con Lewis Eisenberg, telefonate con l’ambasciatore americano a Roma, nonché le dichiarazioni pubbliche del segretario di stato Antony Blinken all’indomani delle elezioni del 25 settembre, espressioni fissate anche attraverso  un tweet di Blinken che Meloni considera come fosse una patente: “Siamo ansiosi di lavorare con il governo italiano sugli obiettivi condivisi: sostenere un’Ucraina libera e indipendente, rispettare i diritti umani e costruire un futuro economico sostenibile. L’Italia è un alleato fondamentale, una democrazia forte e un partner prezioso”.

 

Eppure a nessuno sfugge, nemmeno a Giorgia Meloni che conosce benissimo la natura della benevolenza americana, dipendente com’è dalla politica estera, ovvero dall’Atlantismo manifesto di FdI e dal suo esplicito sostegno alla difesa dell’Ucraina, che le parole di Biden rivelano tuttavia una sottile e implicita diffidenza di carattere per così dire ideologico o se vogliamo culturale. Una distanza di cui Meloni è perfettamente consapevole, che considera inevitabile ma non per questo determinante, e che probabilmente infine lei persino ricambia. D’altra parte il Partito democratico americano, come tutta la sinistra statunitense, è attraversato dalla cultura woke, dalle suggestioni del Black Lives Matter, da tutta quella filosofia liberal che passa anche attraverso gli studi di genere e che Meloni com’è noto avversa, contesta, pur nel rispetto delle reciproche posizioni.

 

“Sono Giorgia, sono una donna, sono cristiana...”. Per comprendere la natura del problema, basterebbe forse ricordare che la donna più vicina al presidente Biden, quella che gli tiene l’agenda, insomma il suo volto e la sua rappresentante di fronte ai media, si chiama Karine Jean-Pierre, ha 48 anni, ed è afroamericana, lesbica, sposata con una donna e madre di una bambina. La distanza è dunque siderale. Se non ci fosse di mezzo la Russia di Putin, sarebbe forse anche incolmabile. E com’è chiaro praticamente a tutti, questo iato persino antropologico, complica i rapporti tra governo americano e futuro governo italiano sottoponendoli al rischio di qualche agghiacciante equivoco. Considerata anche la distanza geografica. La differenza di lingua. L’assenza, per ora, di rapporti diretti e bilaterali. Ragioni per le quali la leader di Fratelli d’Italia, e quasi presidente del Consiglio, ha bisogno di ambasciatori qualificati e inevitabilmente ora si avvicina sempre di più a Elisabetta Belloni.

 

Per alta che sia la posta, per grandi che siano i pericoli e per urgente che sia il bisogno di decidere e muoversi in fretta, Giorgia Meloni in questi giorni persegue religiosamente la calma, la souplesse, un’inerzia quasi da judoka. Sa di essere assediata dall’esterno del Palazzo, da una sinistra che già si prepara a scendere in piazza con lo sciopero della Cgil e chissà anche della Pubblica amministrazione i cui contratti sono in scadenza. Sa di avere un problema all’interno della coalizione con Matteo Salvini che è pronto a rimproverarle politiche attente alla spesa e ai rapporti internazionali con l’Unione europea. Un sabotatore interno (a proposito: “Sono quasi certo che Putin sia dietro alla caduta del governo Draghi”, ha detto dieci giorni fa John Phillips, che è stato ambasciatore a Roma).  

 

E allora non parla, Meloni. Shhh, silenzio. Tesse. Lavora alla composizione del governo, tra le difficoltà che si preannunciano per l’autunno dello scontento energetico, e non avendo veri amici di governo nemmeno al di fuori dell’Italia, esclusi gli assai poco influenti e ancora meno accreditati ungheresi e polacchi, fa affidamento sulla più grande risorsa che in questi anni è riuscita a coltivare all’estero: gli Stati Uniti. Un bene prezioso. Assai più dell’Inghilterra oggi governata da una vecchia conoscenza di Meloni, Liz Truss. Dunque, di conseguenza, consapevole di quanto questa fragile amicizia transatlantica sia importante specie nella solitudine che la attanaglia, la futura presidente del Consiglio sobbalza alla sola idea che qualcosa possa incrinare questo patrimonio strategico.

 

L’America è la chiave di tutto, appunto. Secondo Meloni, e anche secondo i suoi consiglieri politici più vicini, sono gli Stati Uniti lo scudo attraverso cui un paese altamente indebitato e dunque debole può pesare di più in Europa. Che sia vero o no, poco importa. E’ quello che pensano. Così, all’inizio di settembre, durante la campagna elettorale, la leader di Fratelli d’Italia era rimasta di sasso per aver letto certe dichiarazioni (poi smentite) dell’ex ambasciatore Kurt Volker sui rapporti tra i partiti italiani e la Russia che sembravano tirare dentro anche Fratelli d’Italia.

 

Delusa, incredula, e molto arrabbiata, aveva chiesto spiegazioni, e interpretazioni di quelle parole anche agli aruspici della politica estera e atlantica, quelli che si trovavano già accanto a lei, certo. Forse una telefonata a Giulio Tremonti, che la fece entrare nell’americano Aspen Institute quando ancora lei non era la superpotenza che è oggi, l’ex ministro che tuttavia essendo dotato di una fantasia assai accelerata ed egoriferita, per così dire, non è tuttavia il più affidabile degli interpreti. E allora un orecchio ad Adolfo Urso che è stato e forse sarà ancora ministro, un altro a Giulio Terzi di Santagata, l’ex ambasciatore appena eletto senatore che ha però settantasei anni e conoscenze forse altrettanto invecchiate. C’è infine Gianfranco Fini, ovviamente, con il quale i rapporti sono stati in parte recuperati (“fate una telefonata a Gianfranco”, pare sia stato sentito dire l’altro giorno al sesto piano della Camera), ma anche lui è un po’ fuori dal giro. Cosa che, a poco a poco, di recente, ha spinto Meloni a  rivolgersi ai divinatori più aggiornati, più considerati, più accreditati, insomma a Elisabetta Belloni, la persona centrale oggi (e in futuro) nella politica estera e atlantica di Giorgia Meloni.

 

Benché certamente non di famiglia, non essendo lei un politico ma un grand commis de l’état. Sessantaquattro anni, diplomatica di carriera, attuale capo dei servizi segreti, già candidata per una notte al Quirinale, Belloni è la donna che dal 2016 al 2021 ha guidato la diplomazia italiana da segretario generale del ministero degli Affari esteri. Da lei, e da Armando Varricchio, che potrebbe essere il prossimo segretario generale della Farnesina, passerà l’istanza sulla quale più di qualsiasi altra Meloni fa affidamento per prevenire anche la sola ipotesi di accerchiamento e di isolamento internazionale. Malintesi ideologici permettendo.  

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.