Giuseppe Conte e Giorgia Meloni (LaPresse)

nord vs sud

Non solo il Rdc: per Meloni il Mezzogiorno è già una matassa intricata

Dario Di Vico

I risultati del voto mostrano una contrapposizione strutturale del paese che sarà prepotentemente in cima ai problemi del nuovo governo

Eravamo abituati a fare i conti con un sindacato di territorio del nord, dopo queste elezioni con tutta probabilità gli equilibri politici nazionali saranno anche frutto di un confronto serrato con le istanze di un sindacato di territorio meridionale. Dalla Lega nord di Umberto Bossi alla Lega sud di Giuseppe Conte, per dirla con una battuta a effetto. E’ avvenuto tutto a velocità supersonica e di fatto solo nelle ultime due settimane della campagna elettorale si è manifestata la tendenza a una ripresa dei consensi per il M5s con una concentrazione territoriale che è arrivata, almeno nelle proporzioni, anch’essa inattesa. Mettendo in serio imbarazzo il Pd che è stato costretto ad apprezzare questa novità – piuttosto che combatterla – e di conseguenza ad aprire la strada a una sorta di voto utile pro Conte anche se limitato ad alcune regioni.  

 

Ci sarà tempo per analizzare i motivi della straordinaria performance sudista dei 5s, per ora le analisi che si sono ascoltate hanno puntato l’attenzione quasi esclusivamente sulla difesa del Reddito di cittadinanza. Mi è capitato di obiettare, già negli scorsi giorni, che il Mezzogiorno è più lungo e più largo del solo reddito minimo e che quindi le ragioni di un’identificazione popolare con la figura dell’ex premier Conte saranno sicuramente più d’una. A cominciare da quel sentimento che nella letteratura sociologica viene chiamato “vendetta dei luoghi che non contano”, studiato a livello europeo da Andrés Rodríguez-Pose della London School of Economics e ripreso in Italia da alcuni lavori di Gianfranco Viesti. Sarebbe interessante raccogliere la fenomenologia che sta dietro a questo sentimento, a cominciare dallo spopolamento delle aree interne, dal livello estremamente basso dell’efficienza dei servizi per arrivare anche al “dispetto” per la diaspora dei talenti che ha addirittura portato alcune agenzie immobiliari delle province del sud a specializzarsi nel trovare case in affitto a Milano. Resta l’impressione che una reductio ad unum del Mezzogiorno sia fuorviante: c’è il sud vuoto fatto di paesi in cui sono rimasti solo gli anziani, c’è la disoccupazione addensata nelle città più grandi ma ci sono anche poli industriali di assoluta eccellenza in Puglia, Campania, Lucania e Abruzzo che hanno dato vita a filiere ben strutturate. E’ evidente che questa complessità in campagna elettorale non ha avuto la giusta rappresentazione e alla fine il Reddito abbia finito per fare da passepartout del consenso, per di più in un’unica direzione.

 

Come contraltare di ciò che è avvenuto a sud di Roma durante la campagna elettorale a nord abbiamo assistito a un fenomeno anch’esso ancora largamente inspiegabile. Un partito come Fratelli d’Italia di impronta romana e di cultura statalista è riuscito come un camaleonte a immedesimarsi in un contesto socio-economico del tutto diverso e a conquistare il voto della maggioranza degli imprenditori delle Pmi, delle partite Iva e degli operai. Come sappiamo quest’operazione era cominciata nei mesi scorsi quando FdI ha scalato il ranking dei sondaggi ma ha trovato nel rush finale una conferma ulteriore. Il 40 per cento dei voti andati a Giorgia Meloni vengono direttamente da ex elettori leghisti che hanno giudicato la leadership made in Garbatella più capace di far bingo e di rappresentare l’anima del nord. E’ interessante sottolineare che rispetto al passato, quando quello stesso voto aveva gonfiato le vele di Forza Italia e della Lega nord, questa empatia è maturata senza che FdI sviluppasse una sua rilettura della questione settentrionale e senza una particolare enfasi sul tasto “tasse”. 

 

Forza Italia a suo tempo aveva potuto vendere sul mercato elettorale del nord la straordinarietà brianzola della figura imprenditoriale di Silvio Berlusconi e la Lega, invece, aveva costruito attorno alla questione settentrionale una ricca narrazione fatta di Carlo Cattaneo, Gianfranco Miglio, il pratone di Pontida, il fiume Po e via di questo passo. FdI non ha avuto bisogno di costruire niente che somigli a uno storytelling, a leggere le cronache sono bastate un po’ di cene elettorali di Guido Crosetto con gli imprenditori e la figura vincente della leader Meloni.

 

E’ chiaro che nella dissolvenza leghista hanno pesato le contraddizioni interne. Matteo Salvini ha sempre pensato di poter prescindere dal nordismo e alla fine l’ha considerato come una palla al piede per le sue ambizioni personali, Giancarlo Giorgetti ha maturato un’evoluzione del pensiero nordista nel momento in cui ha incrociato – oltre Mario Draghi – le traiettorie industriali delle grandi catene del valore e la triangolazione con Francia e Germania mentre Luca Zaia ha declinato in maniera ancora diversa il leghismo dell’anno di grazia 2022. Sul piano più strettamente economico il governatore veneto è rimasto legato al vecchio modello del piccolo-è-bello mentre su quello politico ha riproposto con insistenza la battaglia dell’autonomia regionale. Se queste tre interpretazioni del leghismo contemporaneo avessero dato vita a un confronto politico esplicito il partito se ne sarebbe giovato, avrebbe rinnovellato il legame sentimentale con i suoi territori, mentre nel momento in cui ne ha fatto solamente una battaglia sorda fatta di astio, dispetti e piccole vendette tutto è diventato più ambiguo. E ha preparato il retroterra per tanti episodi di fuoco amico, alibi per non votare il candidato imposto da Salvini.

Ma è proprio la bandiera dell’autonomia a far incrociare di nuovo nord e sud. Perché se è vero che Zaia si aspetta dal primo Consiglio dei ministri guidato da Meloni il semaforo verde per la legge quadro già pronta (“altrimenti usciamo dal governo”) è anche vero che a quel punto una scelta per l’autonomia differenziata si tramuterebbe in un formidabile assist per Conte, che potrebbe iniziare la sua prima esperienza da “Zelig” dell’opposizione parlamentare facendo proprio leva sull’avversione verso “la secessione dei ricchi”. E mettendo in difficoltà Meloni che nel sud già avrà i suoi grattacapi, nel tener fede alla promessa di eliminare il Reddito di cittadinanza, per cercarsene degli altri. Per carità siamo solo alle prime battute del dopo-urne ma la sensazione che in questa legislatura si parlerà del conflitto nord-sud più che nella precedente c’è tutta. Se non altro perché è un dossier che oggi pare intrecciarsi con l’identità e il posizionamento territoriale delle principali forze politiche.
 

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