Le scissioni fanno male ma in questa corsa al voto potrebbero funzionare

Claudio Cerasa

Se si è in dissenso con il proprio partito, meglio cercare fortuna altrove o custodire il proprio spazio di minoranza? I diversi casi della Lega da una parte e di Giorgia Meloni e Carlo Calenda dall’altra
 

Scissione è liberazione? La campagna elettorale in corso ha rimesso al centro della scena un tema ricorrente nella vita politica dei partiti. La questione è questa: quando le proprie idee sono in dissenso dal pensiero dominante del proprio partito, o della propria coalizione, meglio cercare fortuna altrove, e dunque scindersi, o meglio custodire con cura il piccolo spazio della minoranza? Il problema può sembrare di secondo piano ma se si sceglie di dedicare un istante a questo tema si capirà perché le scissioni sono non solo uno dei motori della campagna elettorale ma anche uno dei modi per capire qualcosa in più sui rapporti tra i leader. Problema: ma esistono scissioni che funzionano? E ancora: esistono scissioni che hanno funzionato? Proviamo a guardarci intorno e a capire di cosa stiamo parlando. E’ uno scissionista Matteo Renzi, uscito dal Pd nel settembre del 2019, dopo aver preso atto che “i nostri valori, le nostre idee, i nostri sogni non possono essere tutti i giorni oggetto di litigi interni”. E’ uno scissionista Carlo Calenda, uscito dal Pd nell’agosto del 2019 dopo l’accordo di governo sottoscritto dal Pd con il M5s.

E’uno scissionista Roberto Speranza, uscito dal Pd nel 2017, in dissenso con la linea rappresentata dall’allora segretario Matteo Renzi. E’ uno scissionista Luigi Di Maio, uscito pochi mesi fa dal M5s in dissenso con la linea rappresentata da Giuseppe Conte. Sono due scissioniste Mariastella Gelmini e Mara Carfagna, uscite poche settimane fa da Forza Italia per rafforzare il polo moderato guidato da Carlo Calenda. E’ uno scissionista Gianluigi Paragone, passato dalla Lega al M5s e ora finito alla guida di un partito che dopo aver denunciato per mesi la dittatura della casta, desiderosa di sottrarre il voto ai cittadini, ha denunciato per giorni la dittatura della casta, che ha portato al voto troppo presto senza dare ai partiti giovani la possibilità di organizzarsi con calma per raccogliere le firme. E’ una scissionista Emma Bonino, che nel 2019 ha lasciato colui che aveva offerto al suo partito, e a quello di Benedetto Della Vedova, il simbolo per potersi presentare alle elezioni del 2018, Bruno Tabacci. Ed è una scissionista, a suo modo, anche Giorgia Meloni, che nel dicembre del 2012, insieme con Guido Crosetto, scelse di lasciare il Pdl, di Silvio Berlusconi, e di fondare un piccolo partito di nome Fratelli d’Italia (ragione per cui Silvio Berlusconi, e tutta Forza Italia, farebbe qualsiasi cosa e anche di più per evitare di avere una Meloni premier).

La prima impressione che si ricaverà scorrendo questo piccolo elenco è che, tranne il caso di Giorgia Meloni, che ha raccolto però i frutti del suo lavoro dopo dieci anni e che ha costruito il suo partito non da zero ma recuperando buona parte dell’eredità di An, nessun partito scissionista è riuscito a conquistarsi, almeno finora, uno spazio elettorale all’altezza delle aspettative degli stessi scissionisti. E se si osserva, per esempio, il rapporto tra Enrico Letta e Carlo Calenda, non si farà molta fatica a comprendere che il tentato accordo tra il Pd e Azione, così come l’accordo tra il Pd e il partito di Roberto Speranza e di Pier Luigi Bersani, scissionista anche lui, ha assomigliato molto a un tentativo di rimettere insieme alcuni fili spezzati durante le molte scissioni registrate nella storia del Pd. E dunque la domanda resta: le scissioni servono? Se si osserva quel che ha combinato Matteo Renzi in Parlamento, dal 2019 al 2021, la risposta è che sì, le scissioni parlamentari possono avere un senso, nel breve periodo, e possono aiutare a determinare alcune traiettorie che difficilmente si sarebbero potute determinare seguendo le rigide regole della disciplina di partito – pensiamo al passaggio dal secondo governo Conte al governo Draghi.

Ma se si osserva lo scenario sul piano elettorale non si potrà non notare che le scissioni, al dunque, penalizzano tutti: sia chi la scissione la subisce (ma non troppo, in realtà, vista la capacità del Pd di pesare negli ultimi sondaggi pubblicabili, nonostante le scissioni subite, più di quanto il Pd prese nel 2018) sia chi le scissioni le fa (Renzi e Calenda). C’è da augurarsi, per chi ha a cuore la battaglia contro i populismi di ieri e quelli di oggi, che le azioni simmetriche dei partiti più allineati con l’agenda Draghi, compresi quelli scissionisti, trovino la forza di trasformare la propria lontananza dai vecchi partiti in un punto di forza, e non in una manifestazione di debolezza (vasto programma). Ma se si osserva, a mente fredda, la scelta fatta in questi mesi dai ribelli della Lega, da coloro cioè che in modo neppure troppo velato in questi mesi hanno mostrato insofferenza nei confronti del proprio leader, da Massimiliano Fedriga a Luca Zaia passando per Giancarlo Giorgetti, viene da porsi una domanda: hanno fatto bene o hanno fatto male a seguire le rigide regole dettate dalla disciplina di partito e a restare nella Lega a inghiottire anche scelte sgradite operate dal leader? E, in subordine, la posizione da moderati, da moderati leghisti, può pesare di più all’interno di un partito grande o all’interno di un partito piccolo? Rispondere a queste domande non è semplice. A meno che non si scelga di guardare la realtà con un occhio più lineare. In un mondo che tende nuovamente a considerare il bipolarismo non come un tabù, essere parte di una piccola minoranza in un grande partito è preferibile all’essere una grande maggioranza in un piccolo partito? Fino a oggi le scissioni hanno dimostrato di fare male più a chi le ha fatte che a chi le ha subite. Ma la caratteristica di questa pazza campagna elettorale potrebbe essere anche quella di dimostrare per la prima volta il contrario: trasformare una scissionista come Meloni nella protagonista di un’Italia presente, e trasformare uno scissionista come Calenda nel protagonista di un’Italia futura. Eccezione o regola? Chissà. Per la prima volta nella storia della nostra Repubblica, la risposta a questa domanda potrebbe non essere così scontata.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.