Giorgia Meloni con Viktor Orban (Ansa)

il giorno dopo

Svegliarsi il 26 settembre con un governo nazionalista. I veri guai, senza la fuffa del fascismo

Norberto Dilmore

Pericoli, scenari e guai. Cosa può voler dire per l’Italia avere un governo guidato da una destra sovranista desiderosa di esportare nel nostro paese il modello polacco e quello ungherese? Un saggio da incorniciare

Pubblichiamo l’estratto di un saggio uscito sul numero di settembre del Mulino scritto da Norberto Dilmore, un nom de plume reso necessario dalla professione dell’autore. L’articolo è ambientato all’indomani delle elezioni politiche e descrive tutte le difficoltà che avrebbe l’Italia in caso di una vittoria del centrodestra sovranista.


     
La destra sovranista ha vinto le elezioni del 25 settembre e formerà nelle settimane a venire un nuovo governo. Il partito maggioritario all’interno della coalizione è Fratelli d’Italia (FdI), che, come la destra polacca, persegue una strategia di politica internazionale pro-Nato, ma euroscettica. FdI ha come alleati minori la Lega, la cui leadership ha simpatie orbanian-lepeniste (anche se una parte consistente del partito è su posizioni più moderate) e Forza Italia, che, pur essendo nel Partito popolare europeo e proclamandosi in favore dell’Europa e della Nato, non è stata sempre convintamente europeista e in alcuni momenti ha mostrato simpatie pro-putiniane. Dati i rapporti di forza all’interno della coalizione, con FdI con più voti dell’insieme di Lega e FI (e con queste ultime tutt’altro che compatte sulla strategia internazionale da perseguire), l’approccio polacco finirà probabilmente per prevalere, perlomeno all’inizio.

 

Cosa intendiamo per approccio polacco? La destra sovranista polacca, una volta tornata al governo nella metà dello scorso decennio, ha agito da freno al processo di integrazione europea (con l’eccezione dei casi in cui ne traeva un diretto tornaconto economico). Inoltre, ha sostenuto la preminenza della legislazione nazionale su quella comunitaria e su questa base a partire dal 2015 ha introdotto una serie di misure volte a mettere in questione la rule of law e l’indipendenza della magistratura. Così facendo ha violato i trattati europei ed è stata sanzionata attraverso il blocco di una serie di trasferimenti europei, inclusi i fondi di Next Generation Eu (Ngeu). Ne è seguito un lungo negoziato che alla fine si è tradotto in un cambiamento della legislazione sull’indipendenza della magistratura in vigore nel Paese centroeuropeo, il che è stato sufficiente a farle ottenere in giugno di quest’anno lo scongelamento dei fondi di Ngeu. A livello internazionale, invece, la Polonia è stata storicamente pro-Nato e anti-Russia, una tendenza che si è ulteriormente rafforzata al momento dell’invasione dell’Ucraina. Di conseguenza, nel caso dell’Italia, per “approccio polacco” intendiamo una strategia politica euroscettica che sonderà su diversi fronti (politiche dell’immigrazione, rinegoziazione del Pnrr, politiche della concorrenza, forse rule of law) i margini di manovra di cui dispone nei confronti dell’Unione europea e appoggerà in modo opportunistico solo politiche europee che avranno una ricaduta positiva diretta e immediata in favore del nostro Paese.

 

D’altra parte, sul piano delle alleanze politico-militari, l’approccio polacco dovrebbe far sì che l’Italia resti ancorata alla Nato (pur con alcuni distinguo, soprattutto da parte della Lega) e continui a favorire un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti (in particolare con la destra repubblicana).Per comprendere appieno le implicazioni sull’Unione europea e sull’Italia del cambiamento di posizionamento di quest’ultima (da Paese atlantista ma nel contempo -e ancor più- europeista durante il governo Draghi a Paese ancora atlantista – con però alcune idiosincrasie, per esempio per quel che riguarda le sanzioni alla Russia – ma decisamente euroscettico con il nuovo governo sovranista) bisogna fare un passo indietro e considerare gli sviluppi politici ed economici europei intervenuti negli ultimi due anni. Dopo i gravi errori di politica economica compiuti durante la Grande crisi finanziaria e la crisi del debito sovrano, errori che avevano grandemente favorito l’espansione di movimenti populisti ed etno-nazionalisti, l’Unione europea non poteva permettersi il lusso di sbagliare di nuovo la propria risposta ad una crisi maggiore. Se lo avesse fatto, avrebbe messo a rischio la sua rilevanza politico-istituzionale e forse anche la propria sopravvivenza. Di questo ne erano certamente consapevoli i governi dei Paesi del Sud dell’Europa e il presidente francese Macron. Ne erano consapevoli anche i socialdemocratici tedeschi, che erano alla guida del ministero delle Finanze in Germania. Dopo un’iniziale esitazione, anche la cancelliera tedesca Angela Merkel comprese la posta in gioco e schierò il suo Paese dal lato della solidarietà europea (aiutata anche dal fatto che dal 2019 la Commissione europea è guidata da Ursula von der Leyen, anch’essa appartenente della Cdu).

 

Con il riposizionamento della Germania, i Paesi cosiddetti frugali (Paesi Bassi, Austria, Svezia, Finlandia) non disponevano più di un peso politico sufficiente per bloccare il cambio di rotta nella politica economica europea. Di conseguenza, invece di perseguire politiche volte a mettere in ordine le proprie economie (un eufemismo dietro il quale si celano politiche di austerità), alla fine del 2020 venne varato un grande piano di rilancio europeo (Ngeu) centrato su investimenti finanziati dall’emissione di debito europeo volti ad accelerare la ripresa e favorire le transizioni ecologica e digitale. Naturalmente, in cambio dei fondi di Ngeu i Paesi beneficiari hanno dovuto impegnarsi ad introdurre riforme per rafforzare la resilienza delle proprie economie e ad investire i fondi sulla base delle priorità concordate (a partire dalla transizione energetica e il digitale), nonché ad assicurare che i fondi ricevuti vengano ben spesi nei tempi definiti congiuntamente con la Commissione europea (una sfida non da poco per l’Italia, la cui capacità di assorbire fondi europei è notoriamente bassa). 

  
L’arrivo di Mario Draghi, con il suo incontestato prestigio internazionale, alla guida del governo italiano nel febbraio 2021 ha fornito la garanzia ai Paesi frugali che l’Italia avrebbe fatto del suo meglio per rispettare gli accordi pattuiti, avanzare con un piano di riforme credibili e spendere bene i fondi allocati dall’Europa al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). L’arrivo di Draghi alla guida del governo italiano è stato un momento importante anche per l’Unione europea, poiché ha spostato ulteriormente la bilancia al suo interno in favore di una maggiore integrazione politica ed economica.

 
Questo ha favorito il perseguimento di obiettivi ambiziosi in campi quali la transizione energetica, le riforme necessarie a rafforzare la resilienza dell’economia europea o il rilancio del ruolo dell’Unione a livello internazionale; obiettivi condivisi dai leaders dei due maggiori Paesi europei (Macron, Merkel prima e Scholz poi) e al cui conseguimento Draghi ha portato un contributo importante sia in termini di leadership che di conoscenza specifica delle azioni da intraprendere. 

 
Il 2021 è dunque stato un anno di ottimismo per l’Europa. Nonostante nuove ondate di Covid, la ripresa si è rivelata forte e la disoccupazione è scesa al di sotto dei livelli pre-pandemici. Inoltre, le misure introdotte sembravano aver posto le basi per assicurare che la crescita sarebbe restata forte e sostenuta negli anni successivi. 

 
Sul piano economico, nel 2021 il maggior problema a cui i policy-makers europei (e non solo loro) hanno dovuto confrontarsi è stato il ritorno dell’inflazione. In parte era un fenomeno atteso (la ripresa avrebbe posto fine alla temporanea compressione dei prezzi prodotta dalla recessione generata dalla pandemia). Quello che era meno atteso era invece il fatto che la pandemia avrebbe anche prodotto interruzioni continue nelle catene di approvvigionamento globale (in parte dovute alle nuove ondate della pandemia, in parte come risultato di politiche specifiche a livello nazionale quali la tolleranza zero al virus da parte della Cina), nonché cambiamenti negli schemi di produzione e consumo che avrebbero condotto ad una scarsità di componenti essenziali come i semiconduttori. Per far fronte a un’inflazione trainata da shock dell’offerta la Banca centrale europea disponeva di strumenti limitati e ha giustamente optato per un approccio prudente e graduale di normalizzazione della politica monetaria. Tuttavia, quando il tasso d’inflazione sale sopra il 5% in modo persistente e i salari faticano ad adattarsi, è difficile chiedere ai propri cittadini di essere pazienti e, nonostante l’introduzione di politiche volte a mitigare gli effetti sul costo della vita, inevitabilmente i costi politici del ritorno dell’inflazione si sono rivelati elevati.

 
Se non fosse stato per il rumore di sciabole russe ai confini dell’Ucraina, il 2022 sembrava aprirsi sotto dei buoni auspici per l’Unione europea, in particolare per quel che riguarda l’economia. Sia la Commissione europea che il Fondo monetario internazionale prevedevano per quest’anno una crescita attorno al 4%, con un’inflazione media del 3% e un tasso di disoccupazione in calo ben al di sotto dei livelli pre-pandemici. A livello politico lo scenario più probabile sembrava essere quello della stabilità della leadership pro-europeista. Il nuovo governo tedesco Spd-Verdi-Fdp si situava nella continuità della politica pro-europea dell’ultimo periodo del governo Merkel (Cdu-Csu-Spd), mentre in Italia il governo Draghi godeva di un forte consenso e le elezioni non erano in programma prima del 2023. Solo in Francia erano previste elezioni, ma con una sinistra e una destra entrambe frantumate e divise in una miriade di partiti e in presenza di una forte ripresa economica, la riconduzione di Macron e della sua maggioranza sembrava una cosa quasi certa.

 
Le cose sono però cambiate radicalmente quando il rumore di sciabole russo si è trasformato in reali sciabolate. Il ritorno della guerra in Europa, tra l’altro di una guerra prolungata in cui si affrontano due eserciti di notevoli dimensioni, non poteva non avere conseguenza maggiori sul quadro politico ed economico dell’Unione europea.

 
La Russia è risultata essere la grande perdente dell’invasione01, mentre la Nato ne è uscita sostanzialmente rafforzata. L’impatto politico ed economico sull’Unione europea è stato considerevole e nell’insieme abbiamo assistito a un indebolimento dell’Unione.
Sul piano economico, il ritorno della guerra sul continente ha influenzato negativamente la fiducia di consumatori e investitori, con un impatto negativo sulla crescita. Inoltre, il drammatico aumento dei prezzi dell’energia e di alcuni prodotti agricoli importati dalla Russia ha prodotto un rallentamento dell’economia e un forte aumento delle tensioni inflazioniste. 

 
Sul piano politico, l’invasione russa dell’Ucraina ha spostato il baricentro politico europeo (e non solo per il riposizionamento dell’Italia). Fino a quel momento, la leadership franco-italo-tedesca a livello europeo era indiscussa, ma la guerra l’ha destabilizzata e vecchie faglie insieme a nuove linee di frattura sono emerse. 

 
Le forze sovraniste hanno ripreso fiato. Questo non vale tanto per l’Ungheria pro-russa di Orban, il cui isolamento si è accentuato, quanto per la Polonia sovranista, ma pro-Nato. L’appoggio incondizionato di questo Paese alla causa ucraina ha portato i suoi frutti politici. Negli Stati Uniti la Polonia non è più il Paese che con l’Ungheria rappresenta l’avanguardia delle democrazie illiberali nei Paesi avanzati, ma piuttosto un prezioso alleato per contrastare i disegni geostrategici dei russi. Su questioni di politica internazionale o di difesa, le posizioni dei Paesi baltici e di diversi Paesi dell’Europa centrale ed Orientale sono ormai più vicine a quelle polacche che a quelle di Francia, Germania o Italia. Certo, la Polonia non è un faro di democrazia, ma Ungheria e Polonia ormai non sono più sullo stesso piano. Inoltre, ora la Polonia può contare su un nuovo alleato, l’Italia sovranista, che non mancherà di far sentire il proprio appoggio su temi quali il primato della legislazione nazionale su quella comunitaria (con conseguente blocco di possibili sanzioni in caso di nuove violazioni della rule of law).

 
Se il fronte sovranista si è rafforzato, quello europeista si è invece indebolito. La guerra in Ucraina e le conseguenti sanzioni e contro-sanzioni hanno portato una Germania improvvisamente terrorizzata dal rischio di ritrovarsi senza gas a ripiegarsi su se stessa. Così facendo ha dato l’impressione di essere un partner riluttante nel sostegno all’Ucraina, con una leadership dilaniata tra priorità politiche e priorità economiche, senza sapere bene a quali dare la precedenza. L’assenza e inconsistenza della Germania sulla scena politica internazionale negli ultimi mesi è stata particolarmente sorprendente, anche in luce del fatto che quest’anno la Germania ha la presidenza del G7 e quindi dispone di un’importante opportunità per pesare a livello globale. Questa assenza di leadership si è tradotta in una cacofonia all’interno della coalizione e un conseguente indebolimento dello spirito di solidarietà (quel che potremmo definire lo “spirito di Ngeu”, in riferimento al cambiamento radicale di indirizzo politico generato da questo progetto). Per esempio, il ministero delle Finanze tedesco a guida Fdp si sta progressivamente riavvicinando alle posizioni dei Paesi frugali in materia di politica fiscale.

 
In Francia Emmanuel Macron, preso alla sprovvista dall’invasione russa dell’Ucraina (non a caso alcune settimane dopo l’inizio delle ostilità ha silurato il capo dell’intelligence francese), ha faticato a riadattare la propria strategia elettorale in vista delle elezioni presidenziali. Mentre è stato abbastanza facilmente rieletto (ma Marine Le Pen ha migliorato il proprio risultato di quasi dieci punti rispetto alle precedenti presidenziali), non ha compreso che una parte consistente dei suoi elettori l’ha votato per far sbarramento alla destra e non per il programma che proponeva per il prossimo quinquennato. Un programma che mancava sorprendentemente di ambizione e che finiva per scontentare un po’ tutti. La sua misura faro era l’innalzamento dell’età pensionabile a 65 anni (qualcosa di alquanto impopolare non solo tra i gruppi sociali meno abbienti, ma anche le classi medio-basse) in cambio di una stabilità della pressione fiscale (no a nuove tasse o a un aumento di quelle esistenti). Per il resto, gli impegni (ambiente, lotta alle diseguaglianze, educazione) erano vaghi e ambigui cosi come era vago e ambiguo l’ammontare di risorse che sarebbero state utilizzate al loro perseguimento. Questa strategia ha scoperto il fianco a sinistra, che, guidata da una forza radicale come La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon, si è battuta con determinazione contro l’aumento dell’età pensionabile e per misure molto più ambiziose sul piano ambientale e della riduzione delle diseguaglianze. Questo le ha consentito di aumentare in maniera consistente il proprio peso nell’Assemblée nationale. Ma ha aperto il fianco anche a destra, dove Marine Le Pen aveva correttamente compreso già dal settembre 2021 che l’inflazione e il potere d’acquisto avrebbero creato un forte scontento nel Paese. Battendo su questi temi e facendo leva sul sovranismo e sull’etno-nazionalismo, ha anch’essa ottenuto un risultato considerevole alle elezioni legislative.

 Cosicché, per la prima volta nella storia della Quinta Repubblica, la coalizione che sostiene il presidente non è riuscita ad ottenere la maggioranza assoluta sulla scia del risultato delle presidenziali. Questo ha notevolmente indebolito la posizione di Macron, che ora deve occuparsi molto di più di questioni politiche interne e dispone di risorse politiche limitate per far avanzare la propria agenda europea ed i suoi progetti internazionali. Non a caso, a livello internazionale, non solo la voce di Scholz, ma anche quella di Macron, si è notevolmente affievolita negli ultimi mesi.

 
Gli sviluppi italiani sono noti e non ci soffermeremo su di essi se non per notare il gigantesco autogol prodotto dalla caduta del governo Draghi. Fra i “tre grandi”, l’Italia è il Paese che ha più da perdere in termini politici e ancore più economici dall’indebolimento della solidarietà europea. Con Germania e Francia in difficoltà per ragioni diverse, Mario Draghi aveva la statura e l’autorità per tenere unito il gruppo di Paesi pro-europeisti, mantenere vivo lo spirito di Ngeu e nel contempo tenere sotto controllo le preoccupazioni nutrite dai Paesi frugali e dai mercati finanziari nei confronti del nostro Paese. Tutto questo è saltato a fine luglio e ha destabilizzato ulteriormente la leadership pro-europeista dell’Unione. 

 
Riassumendo: entriamo nel quarto trimestre del 2022 con un’Unione europea in cui le forze sovraniste ed etno-nazionaliste sono di nuovo in ascesa, in cui stanno riemergendo linee di frattura tra Paesi frugali e Paesi che si richiamano allo spirito di Ngeu e in cui le forze che si richiamano a quest’ultimo sono significativamente indebolite dall’abbandono di Mario Draghi in Italia, la parziale sconfitta elettorale di Macron in Francia e la svolta introversa del governo tedesco. Sul piano economico, con la fine dell’estate, le buone notizie sono dietro di noi e ci attende un inverno molto difficile, caratterizzato da un forte rallentamento economico (con uno o più trimestri di crescita negativa) e, se i russi tagliano le forniture di gas, ulteriori tensioni inflazionistiche. In un tale contesto, l’impatto del risultato delle elezioni politiche in Italia sarà lungi dall’essere trascurabile, non solo per il nostro Paese, ma anche per l’Europa. Fin qui le analisi, soprattutto in Italia, si sono focalizzate sui possibili effetti sul nostro Paese. Tuttavia, l’Italia è sufficientemente influente, sia a livello politico che economico, per avere un impatto sull’Europa e questo in un momento in cui l’Unione europea deve decidere se continuare sulla via dello spirito di Ngeu o tornare invece ad approcci più tradizionali, con un più forte peso degli interessi nazionali nel processo di decisione politica. La parte finale dell’articolo si focalizzerà su queste questioni e le possibili conseguenze sia per l’Italia che per l’Unione europea.

 
A questo stadio è difficile predire fino a che punto il nuovo governo italiano seguirà gli istinti sovranisti ed etno-nazionalisti già fortemente presenti tra i partiti che fanno parte della nuova coalizione governativa. 

 
Come si diceva nell’introduzione a questo articolo, il corso più probabile seguito dal nuovo governo di destra sarà l’approccio polacco (tra l’altro FdI e il PiS polacco sono nello stesso gruppo parlamentare europeo). Una deriva orbanista non è impossibile a livello interno, ma solo se le cose si metteranno male per il governo di destra, che di fronte a un forte scontento economico e sociale potrebbe essere tentato dall’opzione della democrazia illiberale. A livello internazionale, la componente pro-putinista nel governo è minoritaria e resterà almeno inizialmente sottotraccia. Potrebbe tuttavia riemergere nel caso in cui Donald Trump venisse rieletto presidente nel 2024. Nel qual caso essere pro-statunitensi e nel contempo pro-russi potrebbe non essere più in contraddizione e l’anima orbaniana della Lega e di una parte di Forza Italia potrebbe riprendere vigore. L’alternativa di una svolta centrista, con una conversione pro-europeista delle forze maggiori della destra sovranista italiana per trarre i massimi vantaggi dal Pnrr ed essere parte integrante della leadership europea, sembra ancora più improbabile, perché si tratterebbe di una conversione a “u” che non sembra essere nell’ottica strategica di FdI o della Lega, non sarebbe compresa dal loro elettorato e verrebbe accolta con comprensibile scetticismo nelle varie capitali europee.

 
Se perseguirà l’approccio polacco, il nuovo governo italiano cercherà di comprendere dove si situano le red lines che porterebbero ad una rottura con l’Unione (e con l’asse franco-tedesco), e proverà a mantenersi in prossimità di esse senza però superarle (se non per breve tempo). Cosi, si cercherà di rinegoziare il Pnrr per poi probabilmente accontentarsi di alcuni cambiamenti al margine. Alcune componenti della maggioranza annunceranno importanti spostamenti di bilancio e riforme fiscali fantasiose basate sulla flat tax per poi far marcia indietro quando l’Unione europea minaccerà di congelare il disborso di nuovi fondi e lo spread si impennerà. Si minaccerà di dare preminenza alla legislazione nazionale su quella europea per poi far marcia indietro quando le istituzioni si rivolgeranno alla Corte di Giustizia. Si annuncerà il blocco navale per bloccare l’immigrazione, per poi giungere a più miti consigli, compatibili o quasi con la legislazione europea. E così via. È anche possibile, come nel caso polacco, che su uno o più di questi temi si resti al di là delle linee rosse, innescando un conflitto con l’Unione europea. In questo non c’è niente di nuovo: abbiamo già visto questo film ai tempi del governo gialloverde, con surrealistici scontri sul deficit al 2,04% invece del 2,4% o delle misure anti-immigrazione e anti-clandestini perseguite dal ministro dell’Interno Salvini.

   
Mentre la solidarietà della Polonia (e dell’Ungheria) eviterà all’Italia l’imposizione di sanzioni nel caso vada oltre le red lines, questo non la proteggerà però sul fronte economico, da un lato perché le istituzioni europee possono comunque rifiutare di sborsare i fondi di Ngeu quando gli Stati membri non mantengono i loro impegni e dall’altro lato perché, in quanto membro dell’Eurozona, l’Italia è vincolata da una serie di impegni la cui violazione può influenzare la condotta della politica monetaria (si veda il recente avvertimento al proposito del presidente della Bundesbank) e produrre una forte penalizzazione da parte dei mercati finanziari. 

 
Detto questo, se nella maggior parte dei casi il governo della destra sovranista riuscirà a non violare le red lines e a trovare un modus vivendi certo conflittuale − ma non eccessivamente destabilizzante − con le istituzioni europee, si potrà pensare che sarà riuscito a far quadrare il cerchio, essendo stato in grado di assicurarsi la maggior parte dei benefici di cui gode l’Italia con la sua appartenenza nell’Unione europea e nel contempo di riuscire ad adempiere una serie di impegni sovranisti assunti col proprio elettorato. Tuttavia, quel che potrebbe sembrare un risultato nell’insieme positivo nel breve periodo può rivelarsi estremamente dannoso e pericoloso nel medio e lungo termine.

 
A differenza della situazione in cui operava il governo gialloverde nel 2018-2019, in cui era ragionevole avanzare l’ipotesi ceteris paribus (a parità di altre condizioni), vale a dire supporre che le interazioni tra l’Italia e l’Unione europea non avrebbero influenzato significativamente il modus operandi dell’Unione; nel 2022 una tale ipotesi non è più valida per due ragioni: 1) con la pandemia l’approccio generale di politica economica dell’Ue è cambiato in modo significativo. Dal mettere la propria casa in ordine si è passati alla solidarietà europea e allo spirito di Ngeu e il nuovo approccio ha comportato importanti vantaggi per i Paesi più colpiti dal Covid; e 2) se i Paesi che maggiormente beneficiano della maggiore integrazione europea (e che soffrono di importanti fragilità e debolezze) sono i primi a distanziarsi dall’approccio solidale e a favorire in modo opportunistico solo politiche che producono un tornaconto diretto, i Paesi che hanno appoggiato con riluttanza o con riserva Ngeu considereranno allora che è meglio tornare a dare la preminenza ai propri interessi nazionali.

 
Di conseguenza, l’approccio polacco che sarà probabilmente adottato dal nuovo governo italiano presenta il rischio significativo − e devastante per l’Italia − di produrre un back to the future, in cui tornano in auge le politiche perseguite durante la crisi del debito sovrano, politiche peraltro perfettamente compatibili con i trattati europei.

 
Non è stato facile spostare la Germania su posizioni di solidarietà europea nel definire la risposta alla pandemia. E la pace armata con i Paesi frugali ha come presupposto che l’Italia (e con essa gli altri Paesi che maggiormente beneficiavano dei fondi di Next Generation Eu) mantenga gli impegni presi, spenda bene i finanziamenti ricevuti e realizzi riforme importanti per rafforzare la resilienza della propria economia. Come menzionato in precedenza, l’arrivo di Mario Draghi alla testa del governo italiano nel febbraio 2021 offriva tali garanzie ai Paesi frugali e alla Germania. Ora, invece, nel mezzo dell’attuazione del Pnrr, arriva un nuovo governo euroscettico, che vuole rinegoziare parti importanti di esso e che ha in mente “riforme” che non sono compatibili con la legislazione europea e/o scardinerebbero gli equilibri macroeconomici del Paese e forse dell’Eurozona.

 
Perché mai le istituzioni europee e i suoi Stati membri dovrebbero premiare tali comportamenti? Se l’Italia vuole seguire la Polonia sulla via sovranista, non può poi pretendere in futuro di ricorrere alla solidarietà europea quando le fa comodo. C’è dunque la concreta possibilità che lo “spirito di Ngeu” scompaia con la pandemia e la solidarietà europea di grandi dimensioni resti un caso isolato, nonostante abbia dato risultati economici nettamente superiori a quelli delle politiche di austerità adottate tra il 2012 e il 2014, che rischiano invece di tornare ad essere, a dispetto dei loro pessimi risultati, le politiche standard dell’Unione europea. Se questo avverrà non si potrà considerare responsabili i Paesi frugali, ma coloro che hanno scelto di uccidere la gallina dalle uova d’oro.

 

Cosa succederà ora in ambito europeo? Con le leadership di Germania e Francia molto più focalizzate sui propri problemi interni e la ricollocazione dell’Italia in campo sovranista ci si può attendere ad una situazione di stallo nell’Unione europea, almeno per i prossimi due anni.

 
La guerra in Ucraina e le sue ricadute economiche continueranno ad assorbire una gran parte delle risorse politiche delle istituzioni europee e dei governi dei suoi Stati membri. Con la dislocazione degli equilibri all’interno dell’Unione e all’aggravamento della situazione economica, è anche probabile che assisteremo ad un aumento delle tensioni, si tratti dell’attuazione dei Pnrr degli Stati membri, delle politiche dell’immigrazione, dell’approccio di politica monetaria e fiscale da adottare, dell’attuazione delle politiche della concorrenza, o di come gestire la transizione energetica e la trasformazione digitale. Mutatis mutandis, lo stallo politico è probabile anche negli Stati Uniti dopo le elezioni di metà mandato. Nonostante l’Amministrazione Biden sia riuscita a far passare in extremis importanti misure di politica industriale (The US Innovation and Competition Act) e in favore della transizione energetica (The Inflation Reduction Act), questo probabilmente non basterà a far mantenere ai Democratici il controllo del Congresso e in campo legislativo per un biennio l’agenda dell’Amministrazione Biden resterà bloccata.
Le elezioni del Parlamento europeo e ancor più quelle presidenziali statunitensi − entrambe nel 2024 − saranno pertanto decisive per definire la direzione delle liberaldemocrazie nel nostro angolo di mondo. 

 
Se Donald Trump dovesse prevalere e i partiti sovranisti ed etno-nazionalisti continueranno la loro ascesa, una deriva verso regimi di democrazia illiberale sembra probabile. Questo non significa che le liberaldemocrazie si ridurranno significativamente in Europa, ma saranno sulla difensiva e avranno forti difficoltà a far avanzare ulteriormente i processi di integrazione politica ed economica dell’Unione europea. 

 
Se invece dovesse vincere un candidato repubblicano diverso da Trump e il rapporto di forze tra sovranisti ed europeisti dovesse restare invariato, le conseguenze sarebbero difficili da predire. L’alleanza militare resterebbe forte, ma l’Unione europea avrebbe poche possibilità di far progredire il proprio progetto di un’Open Strategic Autonomy. Sull’ambiente e la transizione energetica le posizioni tra la maggior parte dei Paesi europei e gli Stati Uniti divergerebbero fortemente. 

 
Infine, se da un lato dovesse vincere un presidente espresso dal Partito democratico e i Democratici riprendessero il controllo del Congresso e dall’altro lato forze pro-europee nel Parlamento europeo dovessero rafforzarsi, Stati Uniti e Unione europea (insieme forse ai laburisti in Gran Bretagna e le democrazie dei Paesi avanzati dell’Asia dell’Est) potrebbero riprendere la transizione verso quella che io e Michele Salvati abbiamo definito in un libro una nuova forma di liberalismo inclusivo, in cui l’approccio solidale dell’Unione verrebbe rilanciato e rinforzato. 

 
Altri scenari sono altresì possibili, ma, considerata la forte correlazione tra quello che avviene sulle due sponde dell’Atlantico, questi tre scenari mi sembrano i più probabili. Anche nell’ultimo scenario, quello potenzialmente più favorevole all’Italia, non sarà però facile porre rimedio ai possibili danni che le politiche sovraniste del nuovo governo italiano hanno il potenziale di causare, soprattutto se esse finiscono per minare irrimediabilmente lo “spirito di Ngeu”.

  
01Vittima del proprio avventurismo, la Russia ha finito per ottenere risultati opposti a quelli che si prefiggeva. L’annessione di fatto dell’Ucraina è miseramente fallita e l’esercito russo ha mostrato tutti i suoi limiti. Invece di indebolirla e tenerla a distanza, l’invasione russa ha fatto sì che la Nato, definita in “stato di morte cerebrale” dal presidente francese Macron nel novembre 2019, rinascesse dalle sue ceneri e si ampliasse a Svezia e Finlandia. Inoltre, i suoi membri hanno annunciato un sostanziale aumento delle spese militari. Sul piano economico, per la Russia la situazione è addirittura peggiore. Le sanzioni hanno provocato una severa recessione nel Paese, che continuerà anche nel 2023. Più grave ancora, l’embargo sui prodotti ad alta tecnologia e sui pezzi di ricambio, congiuntamente alla partenza delle gran parte delle imprese occidentali e giapponesi e alla fuga di cervelli, produrrà una nuova lunga stagnazione che si aggiungerà a quella già conosciuta dalla Russia tra il 2014 e il 2021. Tutto questo porterà a un ulteriore declino geopolitico e geo-economico del gigante eurasiatico, che per evitare il collasso dovrà dipendere in misura crescente dalla Cina. Al proposito, un’ottima analisi del rapporto della nuova dipendenza della Russia dalla Cina può essere trovata nell’articolo di Alexander Gabuev, Chinàs New Vassal, apparso il 9 agosto 2022 su “Foreign Affairs”.

  


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