Meloni confabula con Zaia e Fedriga. I governisti padani attendono Salvini al varco

Valerio Valentini

"Se posso fare qualcosa", chiede la leader di FdI al presidente del Veneto. "Tieni alta la tensione con Matteo", risponde lui. La soglia del 13 per cento di Giorgetti, la tentazione della resa dei conti in Via Bellerio. Sulle liste il capo del Carroccio gioca da solo, e indispone i colonnelli. Le lamentele degli industriali del nord col ministro dello Sviluppo

Lei li cerca, forse un po’ se li coccola. E loro si confidano, un po’ le si affidano. Qualche giorno fa, a Luca Zaia s’è mostrata perfino in un eccesso di prodigalità: “Se posso fare qualcosa”. E il presidente del Veneto le ha risposto così: “Tieni alta la tensione”. E insomma è come se i governatori della Lega, e con loro buona parte del Carroccio che non apprezza gli eccessi del salvinismo, abbiano costruito un asse con Giorgia Meloni: per pianificare il dopo che verrà, la possibile esperienza di governo che la leader di FdI prefigura complicata, perfino “paurosa”, e per tenere sotto scacco Matteo Salvini. E’ con lui che la tensione va tenuta alta, per dirla col Doge. E’ con lui che bisognerà fare i conti. 

Quelli di Massimiliano Fedriga, che è il più riottoso, benché silente, tra i colonnelli renitenti, e forse anche per questo è quello con cui la Meloni ha un rapporto più solido, sono impietosi: che neppure la soglia del 10 per cento, il prossimo 25 settembre pare scontata. Giancarlo Giorgetti, che invece verso donna Giorgia nutre una certa, ricambiatissima, diffidenza, è perfino più pessimista: nel senso che, a suo dire, il travaglio interno al Carroccio potrebbe deflagrare anche se si stesse intorno al 12 o al 13 per cento. Zaia è il più sornione, il meno temerario in un partito che rivendica il proprio leninismo con tale orgoglio da aver trasformato i doveri di obbedienza in un alibi per la pavidità. 

E ora infatti un po’ tutti, nell’ala meno estrema della Lega, si mangiano le mani. Perché gli imprenditori lombardi, e con essi quelli veneti e piemontesi, insomma tutta la Padania che fu, rimproverano a Giorgetti, a Garavaglia, a Fedriga, di non aver saputo tenere a bada le bizze di Salvini: che insomma la doppiezza tra Lega di piazza e Lega di governo ha un senso solo nella misura in cui quest’ultima impedisce alla prima di fare eccessive sciocchezze, altrimenti è solo gioco delle parti. Sono queste, grosso modo, le lamentele che i ministri leghisti, dopo aver rassicurato gli industriali del Nord col tono di chi è convinto (“Vedrete che anche se Conte farà la pazzia di uscira dalla maggioranza Salvini non lo seguirà”), si sono sentiti rivolgere. E di argomenti per controbattere ne hanno trovati ben pochi. Ma che le grandi manovre per limitare le strambate del capo non funzionino, se ne stanno accorgendo anche in queste ore, visto che sulla composizione delle liste si sta consumando la stessa trama. Due giorni fa, a ora di pranzo, a ridosso della scadenza che i vertici leghisti si erano dati, Roberto Calderoli ha dovuto alzare la voce per farsi consegnare da Salvini e dai suoi più stretti consiglieri l’elenco dei nomi da inserire nei collegi uninominali. E non è bastato, questo, a dirimere i contenziosi più delicati, se è vero che ieri anche Giorgetti ha lasciato la sua Cazzago per precipitarsi a Roma a risolvere alcune delle questioni che più lo angustiavano. “Ma non si era detto collegialità?”, hanno borbottato i governatori, che evidentemente la promessa fatta loro a inizio estate da Salvini (un comitato allargato e paritetico per la composizione delle liste) l’avevano presa sul serio. E invece. Le fibrillazioni dentro Forza Italia, e le rivendicazioni dei centristi di Toti e Brugnaro, poi, hanno fatto il resto: e così ieri, a ora di cena, si è capito che anche stavolta il giorno dopo per chiudere gli accordi è il seguente.

Che fare, allora? L’ipotesi della defenestrazione del capo, del regicidio post-elettorale, è al momento più una suggestione su cui spettegolare, che una prospettiva concreta. Un 25 luglio in Via Bellerio? Non si esclude più, ma non c’è neppure un piano preciso. Senza contare, poi, che la confusione dentro la Lega rischia di alimentare il caos anche dentro il cerchio stretto dei fedelissimi della Meloni, che nonostante tutto ritengono che, alla fine, proprio Salvini sarebbe il più affidabile degli interlocutori. Nel senso che in fondo lui si accontenterebbe, sempre che Mattarella non sia contrario, di tornare al Viminale: a lui basterebbe quello, per acconsentire di buon grado all’apoteosi chigiana della leader di FdI. E invece “quel Giorgetti lì”, vallo a capire: magari sarebbe proprio lui il primo a benedire un’operazione di governo di larghe intese, forse ammiccando a Renzi e Calenda. Che poi, davvero inaugurare la stagione di governo del centrodestra col congresso della Lega in corso, con tutto quel che ne conseguirebbe, sarebbe una buon viatico per l’esperienza di Meloni da premier? Lei al momento riflette, ragione, rimugina. E quando sente Zaia e Fedriga, non lesina cordialità: “Se vi serve qualcosa …”. 

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.