Salvini e Meloni (Ansa)

Lega cannibalizzata

Con chi sta il nord? Meloni fagocita Salvini e con lui l'opposizione interna al Carroccio

Dario Di Vico

Il segretario leghista abdica alla leader di FdI. Il ceto produttivo si trasferisce, Giorgetti & Zaia chiederanno il conto. Ma qual è il livello “inaccettabile” di sconfitta tale da far scattare il ricambio della leadership?

In attesa di altre notti dei lunghi coltelli e delle liste ufficiali dei candidati leghisti sarà utile evidenziare un’apparente contraddizione. Gli ultimi sondaggi parlano di una piccola risalita della Lega ma la sensazione che si ha sul campo è che il partito di Matteo Salvini sia stato cannibalizzato da Fratelli d’Italia. E che se prima c’erano in pista due Leghe ora se ne vede una e per di più ammaccata. È ormai da mesi che abbiamo assistito a un travaso di potenziali elettori dall’una all’altra formazione della destra senza incidenti alla frontiera. Per spiegare il flusso gli addetti ai lavori usano l’espressione “vasi comunicanti”, in base alla quale l’elettore destrorso si sposta da un partito all’altro alla ricerca di maggiore dinamismo o grinta supplementare. Quasi una sorta di darwinismo politico, una selezione della specie. Sicuramente hanno pesato le differenti collocazioni rispetto al governo Draghi, Salvini nella maggioranza seppur sempre “in pizzo di sedia” e Meloni invece libera di comportarsi da free rider, ma forse si è verificato qualcosa di più profondo, di meno tattico. Si è prodotta una sostanziale equiparazione tra le due formazioni (era avvenuto anche alle elezioni del 2013 tra Forza Italia e Lega), si sono perse le rispettive specificità culturali e si sono persi i Dna. La riprova la troviamo nella mutazione di FdI, nato come partito romano e di impronta statalista, è riuscito ad aprirsi la strada del nord e in particolare del consenso dei lavoratori autonomi e del ceto medio produttivo settentrionale.

    
A favorire quest’incursione oltre alla capacità mimetica di FdI e al sistema dei vasi comunicanti di cui sopra ha concorso il posizionamento di Salvini, che per allargare il consenso sul territorio nazionale ha scelto di evolvesi dal tradizionale sindacalismo di territorio e diventare una forza di destra a tutto tondo. L’omologazione è avvenuta cavalcando innanzitutto il tema dell’immigrazione e poi introducendo nel partito i riti di una comunicazione onnivora, soprattutto diretta ad esaltare il Capitano e la sua antropologia da cittadino medio che ama i figli, mangia i prodotti italiani e va allo stadio. A questo menù Salvini ha poi aggiunto un altro elemento, quello religioso, che non era presente nella narrazione leghista bossiana che anzi aveva spesso assunto quasi un carattere “pagano”, distante dalla religiosità tradizionale in nome di un’altra ritualità come quella dell’ampolla del Po. Anche nella simbologia spicciola delle adunate del Pratone di Pontida abbondavano celti, unni e barbari di vario ceppo e latitavano invece santi e madonne. La mutazione salviniana ha comportato però l’abbassamento del ponte levatoio, la Lega ha perso l’identità protetta e di fatto ha favorito l’invasione meloniana, culminata con la conquista della leadership della coalizione di centrodestra. Nel mercato elettorale del centrodestra la Lega è rimasta senza più denominazione d’origine controllata.

   
Ma se i progetti salviniani mostrano il fiato corto, anche l’altra Lega, quella che fa riferimento a Giancarlo Giorgetti e ai governatori del nord-est Luca Zaia e Massimiliano Fedriga, non riesce a proiettare un’idea “esclusiva” del Carroccio nella nuova condizione di competizione interna al centrodestra. La cultura della Seconda Lega era incardinata proprio nel sindacalismo di territorio, ma durante la permanenza al governo abbiamo assistito a una trasformazione della collocazione politico-economica di personaggi di spicco come lo stesso Giorgetti e il ministro Massimo Garavaglia. Non credo che questo slittamento possa essere ricondotto solo alla fascinazione draghiana quanto invece a una maturazione della cultura nordista. Giorgetti in varie occasioni ha indicato chiaramente come l’orizzonte del nord dovesse essere quello della piena integrazione con le due aree forti dell’Europa, l’economia di Francia e Germania. In un’occasione a Vicenza, Giorgetti ha paragonato la sua azione al Mise con quella dei suoi colleghi di allora Bruno Le Maire e Peter Altmaier sottolineando la qualità dell’azione di governo dei due ministri renani e la necessità di muoversi sulla stessa lunghezza d’onda accentuando magari, anche noi, un tratto di patriottismo economico. Si può dire che il ministro abbia seguito l’itinerario della piccola e media impresa del nord che, durante il governo Draghi, ha maturato con maggiore convinzione i vantaggi di far parte del triangolo forte dell’Europa manifatturiera rappresentato dalle grandi supply chain e dalla nostra partecipazione, anche se prevalentemente in qualità di fornitori. E’ interessante vedere come questa maturazione – una sorta di primato della dimensione economica integrata – abbia portato l’altro ministro Garavaglia, ma anche il governatore Zaia, a rivedere le posizioni della Lega in merito all’immigrazione e ad aprire a un’idea di programmazione dei flussi che evidentemente fa a pugni con gli orientamenti di Salvini.

 
Il guaio della Seconda Lega è che nel passaggio dall’economia alla politica i capi non riescono a fare sintesi e per di più non riescono a spostare gli equilibri di un partito di cultura “leninista”, non abituato alla contendibilità della leadership. Del resto, trarre le conseguenze dell’esperienza nel governo Draghi e della propria personale maturazione avrebbe richiesto a Giorgetti e Garavaglia un salto nel vuoto che li avrebbe portati più vicini a Carlo Calenda che a Meloni. Ma per la loro storia personale, per le differenze del leghismo che non è “partito di plastica”, i due ministri non potevano percorrere lo stesso itinerario di Maria Stella Gelmini e Mara Carfagna. Con il risultato però di rimanere schiacciati in una posizione subordinata e per ora silente. O peggio di essere costretti a gufare Salvini pur di poter riprendere palla. Ma qual è il livello “inaccettabile” di sconfitta tale da far scattare il ricambio della leadership? E, soprattutto, dopo un ridimensionamento elettorale con quale tattica di coalizione e quale cultura di partito ripartirebbero i Giorgetti, gli Zaia, i Fedriga e i Fugatti? A queste domande per ora non c’è risposta a ulteriore dimostrazione che Salvini ha messo in un cul de sac non solo se stesso ma anche l’opposizione interna.

  
In questo quadro che sembrerebbe rimandare tutto al fatidico 25 settembre, alla logica della resa dei conti e del Vae Victis, sta maturando però la novità Zaia. Il governatore veneto insieme a Fedriga ha innanzitutto risposto no alla chiamata salviniana decidendo di non candidarsi. Successivamente, proprio in queste ore, sarà costretto ad affrontare a muso duro il capo del partito nella battaglia legata alla definizione delle liste dei candidati in Veneto, sapendo che già in passato Matteo aveva cercato di circoscrivere l’influenza di Luca nella sua stessa regione contrapponendo il partito all’amministrazione (una dinamica da vecchio Pci). Stavolta Zaia non combatte solo sulle poltrone ma ha replicato con una carta a sorpresa: una serie di interviste ai maggiori quotidiani del paese in cui ha comunicato agli elettori la necessità di operare una svolta profonda della cultura della Lega. E’ presto per capire se siamo di fronte a una semplice manovra tattica (materia nella quale Zaia eccelle) o davvero all’apertura di un nuovo capitolo dell’itinerario leghista visto che il governatore veneto ha sostenuto che il centrodestra italiano è rimasto fermo a 30 anni fa, che non ha seguito i mutamenti culturali della società e che è rimasto tagliato fuori dal dialogo sui tempi della modernità e in particolare della sessualità. Il contrario di Simone Pillon, per farla breve. Ma, pur apprezzabile nei suoi intenti, la svolta sociologica di Zaia, sommata alla puntuale rivendicazione dell’autonomia veneta, è sufficiente per far uscire la Lega dal cul de sac in cui l’ha infilata Salvini? Stavolta la risposta, purtroppo, è facile.