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memorie

La parabola del M5s e i politici che negano il passato

Francesco Cundari

Le modalità della vecchia politica, le nuove alleanze dimentiche delle vecchie amicizie. Gli esponenti dei partiti che sono capaci di contraddirsi una legislatura dopo l'altra, dall'immigrazione a Trump, alle ong a Putin

Si dice che in Italia il passato non passi mai, e non capisco perché. Giusto un paio di settimane fa, sul Corriere della Sera, il sociologo Giuseppe De Rita scriveva un lungo articolo in occasione del suo personale novantesimo genetliaco, nella forma di un commosso addio alla categoria degli ottantenni. Ottantenni di una certa classe, a giudicare dall’elenco. “Se scorro l’agenda – scriveva – trovo che gli ottantenni sono una bella sostanziosa tribù: ci ritrovo, per fare qualche nome, Sergio Mattarella e Giovanni Bazoli, Romano Prodi e Gianni Letta, Giuliano Amato e Renzo Piano, Paolo Baratta e Innocenzo Cipolletta, Giuseppe Guzzetti e Paolo Savona…”. 

 

L’elenco proseguiva con un’altra mezza dozzina di banchieri, industriali e giudici costituzionali, tutti o quasi tutti ancora in servizio (ma nessun ragioniere). Personalità di cui De Rita tesseva un appassionato elogio, con il seguente argomento: “A ben vedere noi ottantenni non ci siamo mai concessi l’insostituibilità, visto che ci siamo molto dedicati a trasmettere il testimone a qualcuno che si sentisse consonante con noi”. Questo perché, attenzione: “Nessuno si è sentito più bravo e potente degli altri (forse anche per una generalizzata modestia personale), ma abbiamo via via intessuto una implicita classe dirigente operante in orizzontale, costruita sul primato della stima professionale, poi della cordialità e dell’amicizia”.

 

Nonostante nell’elenco comparissero un due volte presidente della Repubblica e un due volte presidente del Consiglio, nonché una figura come quella di Giuseppe Guzzetti, transitata direttamente dalla presidenza della regione Lombardia, con la Democrazia cristiana, alla guida di importanti fondazioni bancarie, nonché manager pubblici di primarie aziende multinazionali controllate dallo stato, è convinzione di De Rita che a contraddistinguere “nel profondo” questo “corposo segmento di classe dirigente” sia stata la “orgogliosa resistenza di quasi tutti a fare politica, restando quasi sempre su una soglia tecnica e pre-politica anche quando ad alcuni di noi è capitato di assumere incarichi pubblici”. 

 

Sarà per questo che in politica, invece, le cose non sono andate altrettanto lisce. Chissà, magari c’entra anche quella faccenda delle elezioni, fatto sta che negli ultimi anni c’è stato un discreto ricambio, anche generazionale, segnando una piccola discontinuità rispetto alla dolce e armoniosa persistenza dell’establishment finanziario, burocratico e culturale cantata da De Rita. 

Per quanto la cosa possa apparire controintuitiva, tuttavia, la giovane età dei nuovi venuti non ha affatto attenuato il peso del passato nel dibattito politico, il ruolo spesso preponderante delle scelte e delle dichiarazioni precedenti rispetto alle successive, una generale sensazione di chiusura autoreferenziale, il carattere sempre retrospettivo e recriminatorio di ogni discussione. Un peso che impedisce di sollevare lo sguardo al domani, una chiusura che non permette di aprirsi fino in fondo al futuro.

 

Persino Carlo Calenda, il più nuovo dei leader, a capo del più nuovo dei partiti (novità che implica la necessità di ottenere da qualcun altro, meno nuovo, l’esenzione dalla raccolta delle firme), ha dovuto fare i conti con questa attitudine risentita e recriminatoria, dopo averla ampiamente cavalcata – va detto anche questo – contro rivali e avversari. All’indomani del suo accordo con il Pd di Enrico Letta, infatti, nella base del suo partito, Azione, è scoppiata una mezza rivolta, sapientemente aizzata da Italia viva. E non solo. In tanti, dalla Lega al Movimento 5 stelle, sono corsi a rilanciare tweet, video e dichiarazioni di agenzia in cui Calenda diceva il contrario di quello che dice oggi. In verità, non hanno dovuto risalire molto indietro nel tempo.

 

Appena due settimane fa, il 22 luglio, twittava: “Non c’è alcuna intenzione da parte di Azione di entrare in cartelli elettorali che vanno dall’estrema sinistra a Di Maio. Questi cartelli sono garanzia di ingovernabilità e sconfitta. Agenda Draghi e agenda Landini-Verdi non stanno insieme. Sono prese in giro degli elettori”. Intervistato da Sky tg24, mercoledì Calenda si è dunque rivolto direttamente al leader di Italia viva, ripagandolo con la stessa moneta: “Matteo Renzi in queste ore mi sta criticando per questo accordo, ma Matteo Renzi è il signore che dicendo ‘se no ci sono le destre’ ha fatto un governo politico con il Movimento 5 stelle, con Conte presidente del Consiglio, con Bonafede alla Giustizia, con Toninelli, Di Maio… e quello che dico a Matteo Renzi è: amore mio, ma se quella era una buona ragione per metterti con il Movimento 5 stelle, non lo è per metterti con il Partito democratico, di cui sei stato segretario, e con Azione?”.

 

Chi di sicuro dell’alleanza non è contento, ma non lo può dire, almeno in pubblico, è chi in Azione era appena entrato, provenendo da Forza Italia, vale a dire le ministre Mara Carfagna e Maria Stella Gelmini. Per loro poi la questione del passato ha preso una piega tutta particolare, con la destra a riscoprire e rilanciare tutti gli attacchi e le più pesanti insinuazioni di cui le aveva gratificate la sinistra, e con la sinistra a prenderne le difese, ciascuna parte accusando l’altra di ipocrisia, in un infinito batti e ribatti di “tu quoque” e “specchio riflesso” che costituisce in fondo lo schema fondamentale del nostro intero dibattito politico da diversi anni in qua, ma che in questa campagna elettorale ha raggiunto il parossismo.

 

Sono lontani i tempi in cui, come accadeva ancora negli anni Ottanta, ai dirigenti comunisti venivano rinfacciate le posizioni assunte nel ’56, un improvvido articolo in difesa dell’intervento sovietico in Ungheria o un voto in direzione di trent’anni prima. Tempi in cui, oltre tutto, per fare questo gioco occorreva anche un corposo archivio. Con Matteo Salvini, per dirne uno, bastano e avanzano i tweet dei trenta minuti precedenti.
Ma se davvero il passato è una terra straniera, dove fanno le cose diversamente, lontanissimo dal presente in cui viviamo e dal futuro che immaginavamo, nessuno appare più straniero a se stesso e alla propria storia di Luigi Di Maio. E non c’è taxi del mare o della memoria che possa colmare quel vuoto, non c’è sanatoria amministrativa o psicanalitica che possa sanare quella ferita, lasciapassare che possa restituirgli il diritto e la gioia di camminare a testa alta lungo i sentieri di quel campo progressista in cui l’accordo tra Letta e Calenda lo ha improvvisamente relegato al rango di lavoratore a giornata, per di più in nero.

 

Bandito dai collegi uninominali, ostaggio di caporali che verranno a prenderlo di nascosto, un minuto prima di compilare le liste, scaricandolo chissà dove. Perché in Italia il passato non passa tanto facilmente, ma il presente non manca mai di presentare il conto. Come testimonia un prezioso libricino edito dal Sole 24 Ore tre anni fa esatti, nell’agosto 2019: “Salvini o Di Maio – Chi l’ha detto?”. Sottotitolo: “Un anno di governo in 266 dichiarazioni da indovinare”. 
 

Gli argomenti spaziavano dalla sicurezza all’immigrazione, da Trump alle banche, dalle ong a Putin. Esempio: “Nessun invaghimento, abbiamo solo un problema: da quando abbiamo messo le sanzioni alla Russia abbiamo perso 5 miliardi di business per le nostre piccole e medie imprese. Noi non siamo né filo-russi, né filo-americani, siamo filo-italiani. Se le sanzioni alla Russia danneggiano le nostre imprese, quelle sanzioni vanno tolte”. Chi lo ha detto? (Risposta: Di Maio a “Di Martedì”, La7, 10 gennaio 2017). 

 

O anche: “Mi sorprende la scarcerazione di Carola Rackete. Io ribadisco la mia vicinanza alla Guardia di Finanza. Il tema resta però la confisca immediata dell’imbarcazione. Se confischiamo subito, la prossima volta non possono tornare in mare e provocare il nostro paese e le nostre leggi.” Chi lo ha detto? (Risposta: sempre Di Maio, tweet e post su Facebook, 2 luglio 2019).

O ancora: “Draghi è l’esponente delle banche che con l’euro ci hanno guadagnato. Sull’uscita dalla moneta unica non abbiamo la bacchetta magica, non c’è niente di semplice. Quello che è certo è che con l’euro andiamo a fondo. L’alternativa possibile è un’Europa con due monete, attraverso una uscita concordata con Francia, Spagna, Grecia, i paesi più massacrati dai tedeschi. Lo dicono anche sei premi Nobel, basta cercare su Google: Nobel, Euro, patacca”. Chi lo ha detto? (Risposta: Salvini a “Mattino 5”, 22 gennaio 2019).

 

Nulla però dà un senso di spaesamento quanto la psichedelica dichiarazione di Giuseppe Conte, giovedì, a “Metropolis” (il podcast di Repubblica, pubblicata sul giornale di ieri): “Adesso Di Maio deve dimostrare se ha la stoffa del leader che non abbandona coloro che ha portato con sé, oppure se cerca un posto sicuro sotto le insegne del Pd, vicino Bibbiano”. Per chi, come me, ha passato gli ultimi tre anni ricordando alla sinistra infatuata di Conte e dei Cinque stelle quelle incredibili dichiarazioni del ministro degli Esteri, in cui accusava il Pd di togliere “alle famiglie i bambini con l’elettroshock per venderseli” (luglio 2019), vederle ora rilanciate ovunque procura una certa soddisfazione, sia pure tardiva. Non posso negarlo. Mai però avrei immaginato che alla fine della legislatura mi sarei ritrovato al fianco, in tale salutare opera memorialistica, proprio Giuseppe Conte.

 

Viene dunque da pensare che la vera differenza tra la politica di un tempo e la politica di oggi, nell’epoca del populismo, sia proprio qui: che allora contraddizioni e manipolazioni riguardavano il rapporto tra passato e presente, e la loro denuncia e confutazione richiedeva pertanto un archivio, memoria e un paziente lavoro di riconnessione e ricontestualizzazione delle posizioni assunte tanti anni prima e delle affermazioni fatte tanti anni dopo. Mentre oggi, cancellato ogni rapporto col passato, il problema è il rapporto tra il presente e il presente. Che senso avrebbe, ad esempio, contestare a Conte la scelta di sostenere Draghi prima e di farlo cadere poi, andando a ripescare le dichiarazioni di un anno fa o più, dal momento in cui Conte nega semplicemente di averlo mai fatto cadere, e il Fatto quotidiano scrive che Draghi si è sfiduciato da solo?

 

In verità, oggi come oggi, contestare una contraddizione tra passato e presente implica già di per sé un immenso atto di fiducia nel prossimo, nella possibilità di trovare un comune accordo perlomeno sui dati di fatto riguardanti il presente e il passato, anche se magari non sulla loro relazione e interpretazione. Ma nel momento in cui il novanta per cento del dibattito politico consiste proprio nella negazione dei dati di fatto riguardanti il presente – Draghi che si è autosfiduciato, l’Ucraina che si è autoinvasa, i manifestanti che si automenano – il tentativo di sviluppare un qualsiasi discorso sulla coerenza o sull’incoerenza che abbracci un arco di tempo superiore ai cinque minuti si rivela impossibile. Il problema della politica di oggi non è scordarsi il passato. Il problema è ricordarsi il presente.