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riformismo o radicalizzazione?

Verso il voto, con noncuranza. Un'Italia con istituzioni deboli potrebbe non arginare le derive radicali

Sergio Belardinelli

Nella campagna elettorale che porta al 25 settembre si vede il futuro politico di una nazione che evita ogni forma di riformismo e sembra procedere verso il modello statunitense

È appena iniziata la campagna elettorale per le elezioni politiche e già molti italiani si predispongono a trascorrere i prossimi due mesi in compagnia di un fastidioso retropensiero: quale che sia la qualità della compagine che verrà mandata in Parlamento (speriamo che sia migliore di quella precedente), quale che sia il partito o la coalizione di partiti che avrà la maggioranza, difficilmente l’Italia riuscirà ad avere un governo stabile. Il paese avrebbe bisogno in tal senso di una profonda riforma istituzionale che però, almeno fino a oggi, non sembra portar bene a coloro che provano a realizzarla. Ne sa qualcosa Matteo Renzi, l’ultimo ad averci provato.

 

Siccome non si vuole cambiare nulla, qualsiasi proposta di cambiamento viene considerata un attentato alla Costituzione più bella del mondo, oppure rifiutata in nome del principio che il paese avrebbe bisogno di ben altro che di quanto viene proposto. Il risultato è quello che abbiamo sotto ai nostri occhi quotidianamente. E nemmeno Draghi è riuscito a salvarsi.

 
Forse ci vorrebbe addirittura una nuova assemblea costituente, ma chi la reclama (ogni tanto qualcuno ci prova) viene guardato come un marziano, più o meno fastidioso a seconda del contesto e del momento in cui lo fa. Nel frattempo i problemi, tutti i problemi, non soltanto quelli istituzionali, si aggravano e ogni volta appare più larga la voragine tra ciò che si dovrebbe fare e le reali possibilità che si hanno di farlo. 

 

Le istituzioni in generale e quelle politiche in particolare svolgono per gli esseri umani la stessa funzione stabilizzatrice svolta dall’ambiente naturale per gli altri animali. Un contesto istituzionale inadeguato produce sulla comunità lo stesso effetto che l’acqua inquinata produce sui pesci: li costringe a escogitare continui stratagemmi di sopravvivenza oppure a trovare ossigeno altrove. Questo, nel caso degli umani, può certo affinare il loro ingegno e la loro creatività, ma potrebbe anche erodere la loro fiducia a tal punto da rendere estremamente difficile una vita sociale e una dialettica politica degne del nome, almeno finché ci si richiama alla tradizione liberaldemocratica. Con altre tradizioni il discorso ovviamente è diverso. 

 

Istituzioni e cultura politica si condizionano reciprocamente. E’ difficile avere istituzioni politiche liberali senza una corrispondente cultura politica, così come è difficile avere una cultura politica liberale senza corrispondenti istituzioni politiche. Queste ultime, se sono solide, entro certi limiti possono anche tollerare certi margini di illiberalità diffusi nella società. Ma se sono sfilacciate c’è il rischio che finiscano addirittura per favorire il degrado della società in generale e della società politica in particolare (leggi: populismi, demagogia, delegittimazione dell’avversario e cose simili). Per questo le forze politiche che si dicono liberali farebbero bene a preoccuparsi di ciò che nell’assetto istituzionale di un paese non funziona o funziona in un senso che inibisce, anziché promuovere, la libertà e la responsabilità dei cittadini.

 

Detto in estrema sintesi, le istituzioni liberali offrono stabilità a una società politica contrassegnata dalla pluralità e dalla mutevolezza. Per questo, tra le altre cose, le istituzioni possono essere sempre modificate, migliorate, e la pluralità viene in qualche modo sempre tenuta a freno, incanalata, se così si può dire, nell’alveo predisposto dalle istituzioni stesse. Specialmente nei momenti cruciali della vita politica, la stabilità, la forza e la fiducia che i cittadini ripongono nelle istituzioni giocano un ruolo decisivo. Istituzioni solide e ben funzionanti a volte possono persino compensare certe debolezze della cultura civile di un paese. Ne sanno qualcosa gli americani, che si sono potuti permettere persino un criminale assalto a Capitol Hill, senza che la nazione andasse in pezzi.

 

Ma nel nostro caso, nel caso dell’Italia, non è così. Forse abbiamo già intrapreso la china di una radicalizzazione politica simile a quella americana, per nulla compensata da istituzioni forti, ben funzionanti e quindi capaci di arginarla. Ma nessuno sembra curarsene più di tanto. Di conseguenza, anziché prendere di petto i problemi reali che abbiamo, assisteremo probabilmente a una campagna elettorale con tanti convitati di pietra. Uno di questi, come ha rilevato Angelo Panebianco sul Corriere di martedì scorso, sarà sicuramente Vladimir Putin. Ma insieme a lui, e temo con altrettanta sicurezza, ci saranno anche il nostro spaventoso debito pubblico e il nostro scarcassato sistema istituzionale. 

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