(foto Ansa)

"Di fronte a un'Europa in guerra nessuna incertezza è possibile". A chi le suona Mattarella

Claudio Cerasa

Prendere alla lettera le parole del capo dello stato e capire perché contro Putin le mezze misure non possono più funzionare

Per chi suona la campana suonata ieri da Sergio Mattarella? A Strasburgo, il presidente della Repubblica, confermando il suo stato di grazia, ha aggiunto un tassello ulteriore al mosaico delle verità sulla guerra in Ucraina. Dopo aver ricordato (giovedì) che il diritto alla pace a volte è necessario difenderlo anche con le armi. Dopo aver detto (ancora giovedì) che la pace non si costruisce con la resa. Dopo aver riconosciuto (stavolta lunedì) che gli eroi che compongono l’esercito ucraino meritano di essere considerati come i nuovi partigiani. E dopo aver ricordato (richiamando l’articolo 11 della Costituzione) che l’Italia ripudia la guerra in tutte le sue forme, sì, ma non ripudia la guerra quando questa ha caratteri difensivi, quando cioè uno stato è violato nella sua sovranità dall’aggressione di una forza straniera.

Dopo aver fatto tutto questo, ieri a Strasburgo Sergio Mattarella ha messo un altro dito negli occhi dei professionisti della gnagnera pacifista, dei campioni del distinguo politico e degli irresponsabili del terzismo geopolitico e ha posto di fronte allo sguardo di molti osservatori un tema ulteriore che merita di essere preso sul serio. E il tema è questo: “Non si può arretrare dalla trincea della difesa dei diritti umani e dei popoli… E di fronte a un’Europa sconvolta dalla guerra nessun equivoco, nessuna incertezza è possibile”. Nessuna incertezza è possibile, dice Mattarella e, letto nell’attuale contesto politico, il richiamo del capo dello stato  costringe a porci una domanda complicata, che riguarda la presenza o meno di incertezze, da parte dell’Europa e da parte dell’Italia, nel rispondere all’aggressione della Russia. Ieri Mosca, mettendo in campo la sua prima vera ritorsione alle sanzioni imposte dall’occidente,  ha interrotto le forniture di gas a Polonia e Bulgaria, dopo aver accusato i due paesi di essersi rifiutati di pagare il gas in rubli, e ha messo l’Europa di fronte a una verità: la reale frontiera globale della guerra in Ucraina non riguarda l’uso delle armi ma  la trasformazione in un’arma dell’energia e l’Europa, su questo terreno, deve decidere se stare dalla parte degli equivoci o dalla parte delle certezze. Stare dalla parte delle certezze significa avere il coraggio di fare una scelta drastica e la scelta drastica sul piano economico oggi coincide con una consapevolezza: le sanzioni morbide non sono sanzioni e fino a che le sanzioni saranno a metà, l’occidente avrà scelto di dare un vantaggio competitivo alla Russia di Putin. Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, fa bene a tenere la barra dritta per difendere ciò che l’Europa ha fatto finora e ieri ha giustamente ricordato che “pagare in rubli le forniture di gas dalla Russia, se questo non è previsto dai contratti, è una violazione delle nostre stesse sanzioni”. Eppure la Commissione europea dovrebbe trovare la forza di lavorare con il Consiglio europeo per combattere Putin facendo quello che finora non ha avuto ancora la forza di fare. 


E cioè un embargo immediato sul petrolio russo (che alla Russia rende tre volte tanto quello che le rende il gas), un tetto immediato al prezzo del gas in Europa (correndo il rischio che poi la Russia faccia quello che ha fatto ieri con Polonia e Bulgaria), un invito ai paesi dell’Unione europea a mettere in comune le proprie risorse energetiche (sotto i mari italiani ci sono riserve pari a oltre 90 miliardi di metri cubi di metano a basso costo, che rappresentano una cubatura che da sola andrebbe a compensare ciò che la Germania riceve ogni anno dalla Russia, 42 miliardi di metri cubi all’anno, e ciò che l’Italia riceve ogni anno dalla Russia, 29 miliardi di metri cubi annui). L’avanzata della Russia, come ricorda da mesi Anne Applebaum, è avvenuta perché, negli ultimi anni, non sono state intraprese azioni contro l’aggressore.

Putin, in questi anni, ha avuto la possibilità di muovere le sue pedine contro l’Ucraina, e contro l’Europa, non perché l’occidente ha fatto sentire Putin sotto scacco, ma perché, al contrario, dal 2014 a oggi, l’occidente ha scelto di reagire alle aggressioni di Putin non imponendo sanzioni serie, non interrompendo gli affari con lui, non riducendo la dipendenza dalla Russia, non aiutando l’Ucraina a sufficienza e non dissuadendo i russi dall’invadere di nuovo. La Polonia – che come ha ricordato ieri il Sole 24 Ore si preparava da anni a fare a meno del gas russo, da cui un tempo dipendeva al 100 per cento, e che da anni ha scelto di dotarsi di due rigassificatori, in gran parte riforniti grazie a contratti con società americane, e che dal primo ottobre metterà in funzione il Baltic Pipe, gasdotto da cui potrà importare 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno dalla Norvegia – negli ultimi giorni ha scelto di lanciare una saggia campagna contro Putin intitolata #StopRussiaNow con l’idea di spingere l’Europa a fermare le azioni della Russia introducendo ulteriori sanzioni, rapide e forti, e “porre fine al finanziamento della macchina da guerra di Putin”, come ha detto il 23 aprile il capo del governo polacco, Mateusz Morawiecki, che ha anche ricordato in quell’occasione di aver donato aiuti militari all’Ucraina per un valore di circa 1,6 miliardi di euro.

Cercare la pace è un dovere per tutti, come ha ricordato ieri Mattarella, ma se si sceglie di non arretrare dalla trincea della difesa dei diritti umani e dei popoli mai come oggi nessun equivoco e nessuna incertezza è possibile. E tra le incertezze, purtroppo, oggi ci sono anche le mezze sanzioni e le mezze azioni che l’Europa, spinta dall’Italia e dalla Germania, ha scelto di presentare a Putin con lo stesso effetto ottico offerto in guerra dall’inviare al fronte armi spuntate. Sanzioni più forti, meno ambiguità, meno equivoci. La Polonia stavolta ha ragione: Stop Russia Now.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.