Fausto Bertinotti (LaPresse)

Dal secolo breve alla "rinascita dei mostri"

La guerra, il pacifismo, la Russia. Parla Fausto Bertinotti

Marianna Rizzini

"Putin non è erede dell’Urss, ma in continuità con gli zar. I fantasmi che riaffiorano sono espressione della morte della politica. La Nato? Sarebbe stato meglio rapportarsi ai russi riconoscendo loro un ruolo da protagonisti", dice l'ex segretario di Rifondazione comunista

La guerra, l’invasione, le bombe, la minaccia nucleare, l’Europa che sembra ripiombare in un fosco scorcio di Novecento. “Ma non c’è davvero continuità, anzi: gli elementi di continuità che vediamo sono fallaci”, dice Fausto Bertinotti, che da presidente della Camera e da segretario di Rifondazione Comunista ha vissuto da vicino gli anni dello sgretolamento delle ideologie. Non è tanto il capovolgimento di simboli e ruoli che deve stupire, tantomeno il Matteo Salvini che vuole marciare nei panni pacifisti verso il confine con l’Ucraina (“è talmente evidente il carattere strumentale delle sue mosse, da quando si diceva filo-Putin a oggi, che non mi pare la questione abbia particolare densità politica”, dice Bertinotti).

 

Il punto è come ci si è arrivati, a questo punto: “Bisogna ricordare che Putin e questa Russia non sono eredi dell’Urss, ma sono in continuità con la Grande Russia degli zar”. Il “secolo breve di cui parlava Eric Hobsbawm – con la vittoria contro il nazifascismo, il ripudio della guerra, il processo di costruzione dell’Europa e il passaggio drammatico della Guerra Fredda – è finito, sì, però siamo ancora immersi negli strascichi di quella fine”. “Voglio citare una frase molto citata di Antonio Gramsci”, dice Bertinotti: ” ‘Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri’. Ecco, siamo davanti alla rinascita dei mostri”.

 

Con vari tratti distintivi: “Questo balzo di tigre che porta indietro, verso il nazionalismo, con la patria brandita come arma di guerra, in un’assolutizzazione della patria stessa – e Putin lo fa operando una correzione al passato, come volendo espungere il periodo dell’Urss per tornare alla Grande Russia. Questa non è una guerra ideologica, come lo erano le guerre contro o a favore delle quali ci si schierava secondo opzione politica. I fantasmi che riaffiorano sono espressione della morte della politica”. Siamo di fronte “a una logica di potere assolutizzata, in assenza di riferimenti ideologici”, dice l’ex presidente della Camera: “Tutto si confonde: i riposizionamenti sembrano occhieggiare a qualcosa che proviene dal passato, ma non è così. Il pacifismo che è stato protagonista del disarmo nucleare, quello che aveva come confine la frontiera democratica, e che poteva identificarsi con i nomi di Aldo Capitini e di Giorgio la Pira, e il pacifismo del movimento altermondista, oggi appaiono indeboliti. Nello spiazzamento generale, l’unica vera voce di pace è quella del Papa. Mancano le parole, come pure sembra flebile la voce della grande diplomazia e del realismo politico”.

 

Realismo politico che avrebbe consigliato, dice Bertinotti, pensando anche “alle voci del pensiero conservatore illuminato”, di non accelerare, anzi, “sull’allargamento della Nato, e di rapportarsi alla Russia riconoscendole un ruolo da protagonista. Ora sento discorsi che paiono risucchiati in una logica di ineluttabilità che non aiuta certo a frenare l’escalation militare”. E se “il nemico diventa il russo invece che la guerra di Putin” (vedi episodio del corso su Dostoevskii alla Bicocca); e se “l’omologazione del pensiero fa echeggiare persino una sorta di negazionismo della trattativa, la devastazione culturale è compiuta. Non solo: così si riconosce a Putin la rappresentanza totale di un popolo. Sappiamo che non è così”. Se “interventismo pacifista deve essere”, dice Bertinotti, “sono d’accordo con Michele Serra. Che su Repubblica scrive: e se ‘per ipotesi utopistica fino a un certo punto’, i leader Ue decidessero che il prossimo Consiglio abbia come sede Kiev, facendo della loro presenza fisica un’arma?”.

 

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.