Letta frusta Salvini (e non solo): "Basta con le ambiguità sulla Russia". E spera in una mossa di Draghi

"Troppe ambiguità, troppi distinguo: così non si può affrontare una crisi di tale portata". Lo sfogo del leader dem all'uscita da Montecitorio

Valerio Valentini

Il segretario del Pd, dopo una giornata di baruffe parlamentari, mostra preoccupazione: "Ho sentito un dibattito che sarà piaciuto a Putin". I dem rischiano di essere gli unici a sostenere la via delle sanzioni. E anche Conte si sfila. Il M5s nella palude del Mes: "Dovremo dire di sì, e tutti ci rideranno dietro", urla il grillino Buffagni. La prudenza del premier sul dossier ucraino

Esce dall’Aula e scuote il capo. Vorrebbe forse offrire una battuta, ma il tono severo tradisce una cupezza che è preoccupazione: “Ho ascoltato un dibattito che sarà piaciuto a Putin”. Enrico Letta non ci sta: le furbizie di Matteo Salvini sulla crisi russa non può accettarle. E nell’ostentare questo fastidio, da parte del leader del Pd c’è anche un ammiccare a Mario Draghi, un attendersi che da lui arrivi un richiamo all’ordine. E però, per strana coincidenza d’accidenti, la giornata della baruffa parlamentare sull’Ucraina è pure quella della distensione tra il premier e il capo della Lega. Che se la ride: “Bye bye stato d’emergenza”. 

Suona infatti dolcissimo, alle orecchie leghiste, l’annuncio tanto atteso: quello che Draghi fa da Firenze. E nella vittoria in quello che anche Giancarlo Giorgetti definiva “un derby tra noi e Speranza”, Salvini ci vede la possibilità di respirare, di poter “spiegare anche alla nostra gente – dirà il segretario della Lega coi suoi fedelissimi – le ragioni del nostro stare al governo”. Scelta che, per l’ex capo del Viminale, non è mai stata messa in discussione. Se poi la conclusione dello stato d’emergenza e il graduale accantonamento del green pass varrà come tregua duratura, è difficile da dire. Qualcosa lo si capirà già stamane, quando l’Aula di Montecitorio dovrà esprimersi sul decreto Covid. Si capirà, cioè, se davvero il Carroccio darà seguito alle sue minacce di dare la fiducia ma di astenersi sul merito del provvedimento. Una furbata che sa d’imbarazzo, e su cui però, fino a ieri, il capogruppo Riccardo Molinari era inamovibile: “La questione non la possiamo risolvere né io né tu”, ha detto al ministro Federico D’Incà: “Su questi temi ho mandato di andare fino in fondo”.

Il dissidio è insomma politico: e della stessa natura sono anche quelli sul catasto, sulla giustizia e sui balneari (le cui associazioni ieri Salvini ha incontrato). Tutti inciampi sulla strada di Draghi. E se è vero, come ripete il ministro dem Andrea Orlando, che le tensioni nel governo vengono causate quasi esclusivamente dalla Lega, che è insomma da Salvini che Draghi deve pretendere un chiarimento (l’incontro tra i due è ancora in sospeso), è vero anche che nell’istituzionalizzazione del disordine il Pd – e qui sta la preoccupazione di Letta – rischia di ritrovarsi a dover cantare e portare la croce. Perché è vero che Giuseppe Conte, al dunque, non ha mai fatto venir meno il suo sostegno al governo; ma il nervosismo crescente in casa grillina potrebbe indurre le truppe all’insubordinazione. E si spiega così l’impuntarsi di un gruppo di deputati del M5s, guidati da Davide Serritella, per mettere in votazione degli ordini del giorno contro il green pass che strizzano l’occhio a Lega e FdI. Ed è per questa china che si potrebbe scivolare sul Mes. Lo si è capito ieri, quando Stefano Buffagni, responsabile del comitato economico del M5s, un paio d’ore dopo l’intervento in Aula con cui il ministro Daniele Franco aveva ribadito l’imminenza della ratifica del trattato, urlava platealmente nel cortile di Montecitorio: “Questa cosa ci tornerà addosso, ce la rinfacceranno, ci rideranno dietro, ma noi non abbiamo altro modo di stare al governo”. Ce l’aveva forse col suo capo, era a lui che demandava la responsabilità di una presa di posizione. Sennonché Conte, intanto, fischiettava: “Vediamo le modifiche al Mes, se sono sostenibili le appoggeremo”, diceva, come se non fosse stato il suo governo a negoziarle, quelle modifiche.

Insomma al Nazareno si sbuffa e si pazienta, si prova a cogliere, anche qui, il dato positivo: “La notizia è che Conte apre al Mes”. E del resto anche nella direzione di lunedì, ogni volta che dal fronte sinistro – Marco Furfaro, Barbara Pollastrini – si suggeriva la necessità di distinguersi dall’ombra del premier, si levavano subito voci trasversali di contrappunto: e allora ecco il gueriniano Dario Parrini dire che “dobbiamo caratterizzarci come il partito della serietà e rifuggire ogni furbizia tattica”, ed ecco anche Goffredo Bettini ribadire che “occorre sostenere con schiettezza e lealtà Draghi: i cittadini giudicheranno il Pd anche in relazione a quanto il governo avrà fatto bene o avrà fatto male”.

Se però su tutto è tollerabile, la fatica del compromesso, sulle scelte geostrategiche per Letta non si transige. “E invece negli interventi  al Senato e alla Camera – sbuffa coi suoi deputati il segretario, riferendosi ai leghisti, ma anche a certe timidezze grilline e forziste, tutti titubanti sulle sanzioni – ho sentito troppe ambiguità, troppi distinguo, troppi pronunciamenti pro Russia, addirittura ricostruzioni bislacche che arrivano perfino a mettere in discussione la responsabilità della crisi, che è tutta e solamente da attribuire a Putin”. Insomma, per l’ex premier “non si ha la contezza della gravità  storica della situazione, a mettere tra parentesi la nostra appartenenza all’asse atlantico, e questo è grave”.  E però intanto Conte pensa allo statuto del M5s; Salvini si gode la vittoria sulle riaperture, e pure la fermezza di Draghi, per una volta, pare vacillare. 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.