Enrico balla coi lupi

"Venerdì chiudiamo". Letta nel bunker resiste a Casini, sperando nella Meloni

Simone Canettieri

Il segretario Pd è circondato dalla filiera D'Alema-Bettini-Conte-Franceschini contro Draghi. E il Pd diventa un poligono

“Eppure l’81 per cento degli elettori del Pd, dunque la nostra base, vuole Draghi al Quirinale. Eppure...”. Sospiri dal Nazareno. Enrico Letta ci ha provato. E continuerà a farlo. Tuttavia deve fare i conti con le correnti dem. Organizzate. Velocissime nella manovra parlamentare. Pum pum. La terza votazione è  un poligono. Avvertimenti. I voti per Mattarella e quelli per Casini sono lucciole nella notte dem. Tra i vertici del Pd c’è chi sospetta una filiera D’Alema–Bettini–Conte.

    
Enrico Letta prova a vedere le cose belle, ma capisce che su questa partita si gioca la segreteria. Di buono, dice di aver sminato l’ipotesi di Elisabetta Casellati. E’ la seconda mossa che conduce in tandem con Matteo Renzi, dopo la tentazione gialloverde su Franco Frattini. Anche nel caso della presidente del Senato i problemi provenivano (e provengono) dai pentastellati.

  
I grillini rientrano nella gamma di dolori intercostali con cui deve fare i conti il segretario del Pd. Ormai non è un mistero: Conte è animato nel no a Draghi  da un filo invisibile che parte da Massimo D’Alema, tocca Goffredo Bettini e poi raggiunge Dario Franceschini. 

  
Vista dall’alto la cosa è abbastanza divertente perché si legge così: il capo dei 5 Stelle si abbevera al pozzo delle idee e delle strategie dei fondatori del Pd che vanno in contrasto con la linea dell’attuale segretario del Pd. Conte, forte di questi ragionamenti, continua a vagheggiare l’idea di Elisabetta Belloni, ma è ondivago e punta solo ad avere la meglio sul rivale interno. L’avvocato del popolo a tratti diventa realista e capisce che l’unico in grado di non far fare armi e bagagli a Draghi da Palazzo Chigi potrebbe essere Giuliano Amato. Un rebus.

  
Al segretario del Pd viene rimproverato da molti big – compreso il ministro Andrea Orlando – di aver condotto male la trattativa su Draghi: se l’è intestato dal primo momento, senza aver il partito né gli alleati né il centrodestra dalla sua parte. “Mi sembra un’ipotesi tramontata, poi certo non faremo gli schizzinosi con gli altri nomi”, dice Matteo Orfini, altro pezzo del mondo dem che sul no all’ex banchiere ha costruito una vera e propria trincea. Avanza Pier Ferdinando Casini con la solita venatura surreale del Pd: eletto grazie al Nazareno (vecchie gestioni) adesso è il problema del Partito democratico. “E’ un nome che sale e scende, ma c’è”. La linea di area Dem, la corrente franceschiniana, è tracciata. E anche Base riformista, l’area guidata da Lotti & Guerini, è più che aperturista. Se spunterà il nome del centrista, magari portato dal centrodestra, per i rossogialli saranno pasticci. Perfino Giuseppe Conte inizia a farci un pensierino. Sapendo che potrebbe essere il colpo del ko a Luigi Di Maio, abile a intestarsi buona parte dei voti finita nell’insalatiera  per  Mattarella. Sul tavolo la presenza del Capo dello stato che il 3 febbraio terminerà il suo mandato c’è eccome, almeno nei sogni del Pd. Ma come si esce da questa impasse? La visita di Matteo Salvini a casa di Sabino Cassese – notizia svelata dal Foglio nonostante le timide e pasticciate smentite di Salvini dopo 30 minuti – blocca le trattative con il Pd.

   

“Il prof non è il nostro nome”, provano a smentire al Nazareno, presi in contropiede da questa visita del leader leghista. Quando poi il centrodestra tira fuori il nome di Pier Ferdinando Casini per capire l’effetto che fa, il fronte rossogiallo va di nuovo in ebollizione. Conte si tiene aperta la porta e anche il segretario del Pd fa altrettanto. Non può non prenderlo in considerazione, anche se non è mai stato il suo candidato, anche se – lo sanno anche i muri – è il nome su cui da sempre punta Matteo Renzi. Ancora una volta Letta si aggrappa all’amica Giorgia Meloni per tentare di sbarrare la strada a Casini e per tenere aperto il forno di Mario Draghi. Andrea Delmastro, colonnello di FdI, commenta questa ipotesi, quella del centrista con molta asprezza: “Se ce la fa, siamo fregati: torna il proporzionale, la partitocrazia, il centro”, ragiona il deputato con un gruppetto di colleghi.

 

Serpeggia l’idea nel Pd che alla fine il “draghicidio” potrebbe poi portare a un “letticidio”. Un missile a doppia gittata per far fuori il segretario dem a opera delle correnti. Nicola Zingaretti, che ne sa qualcosa, a chi glielo domanda risponde che non ci crede perché la storia non si ripete mai nello stesso modo. Intanto oggi – salvo sorprese – per i dem ancora scheda bianca. “Venerdì si chiude”.

  • Simone Canettieri
  • Viterbese, 1982. Al Foglio da settembre 2020 come caposervizio. Otto anni al Messaggero (in cronaca e al politico). Prima ancora in Emilia Romagna come corrispondente (fra nascita del M5s e terremoto), a Firenze come redattore del Nuovo Corriere (alle prese tutte le mattine con cronaca nera e giudiziaria). Ha iniziato a Viterbo a 19 anni con il pattinaggio e il calcio minore, poi a 26 anni ha strappato la prima assunzione. Ha scritto per Oggi, Linkiesta, inserti di viaggi e gastronomia. Ha collaborato con RadioRai, ma anche con emittenti televisive e radiofoniche locali che non  pagavano mai. Premio Agnes 2020 per la carta stampata in Italia. Ha vinto anche il premio Guidarello 2023 per il giornalismo d'autore.