il retroscena

Forza Italia e la caccia al peone per il Cav., ma Salvini e Meloni per il Quirinale guardano altrove

Valerio Valentini

Per Giorgetti, quella di Berluscono è una "scommessa sul caos". I deputati azzurri marcano a uomo ogni singolo potenziale grande elettore, ma Quagliariello avverte: "Il centrodestra rischia di saltare per aria così". L'irritazione dei centristi, i mugugni di FdI a due giorni dal vertice romano

Più che alla saldezza dell’aritmetica, l’auspicio della confusione. Giancarlo Giorgetti la vede così, la scalata al cielo quirinalizio da parte del Cav., come una “scommessa sul caos”. Un azzardo, dunque, ma che ha una sua logica, se è vero che il ministro dello Sviluppo leghista, lo stesso che fino a dieci giorni fa diceva “per il Colle c’è solo Draghi, il resto è chiacchiera”, ora inizia a dire che “la situazione è fluida, lo sa anche il premier”. Ed è allora in questa incertezza, che Berlusconi lavora. Spesso confidando anche sullo zelo di autodichiaratisi procacciatori di voti che vanno alla ricerca di nuove reclute per poi riferire ad Arcore sul bottino raggiunto: “Abbiamo un voto in più, presidente”. 

Gianni Letta, che è uomo di metodo, tempo addietro suggerì che la via da seguire, comunque stretta, sarebbe dovuta essere un’altra: cercare intese coi leader, lavorare a un accordo politico che desse il senso di una convenienza collettiva all’apoteosi quirinalizia di Berlusconi. S’è scelta invece un’altra strada, e tutti si sono acconciati alla nuova strategia con la convinzione di chi crede a prescindere nella facoltà del capo, se è vero che nel sancta sanctorum di Arcore, da Fedele Confalonieri in giù, in tanti dicono che “Silvio ci ha già sorpresi tante volte”.

E allora eccola l’altra ricetta: la caccia al peone. Specialità della casa berlusconiana fin dai tempi della caduta di Prodi, e ritenuta quantomai utile in un Parlamento che è esattamente come la presidente del Senato Elisabetta Casellati lo descrive allarmata ai suoi interlocutori d’Aula a metà giornata, e cioè “incomprensibile”, se è vero che tutti i capi di partito si sono espressi contro la soppressione della commissione Affari europei e però la Giunta per il regolamento di Palazzo Madama partorisce una bozza in cui la commissione suddetta viene accorpata a quelle di Esteri e Difesa in vista della prossima legislatura. E così, nel sottobosco del Transatlantico, trovano una insperata centralità anche figure come il deputato Alessandro Sorte. Forzista bergamasco, un tempo gelminiano e ora in cerca di nuovi approdi, è passato da FI a Cambiamo!, per poi tornare sui suoi passi. E forse nell’ansia di farsi di nuovo benvolere nei panni del figliol prodigo pentito, s’è messo a cercare nuovi elettori per il Cav., vantando buone entrature non solo nel campo avverso, lui che a metà gennaio sposerà una dirigente bergamasca del Pd, ma anche tra i suoi ex compagni scissionisti. Tra i quali ne ha convinto uno, pare: tale Claudio Pedrazzini, pure lui forzista offertosi a Giovanni Toti, e ora tornato nel limbo del Misto proprio in attesa di scrivere il nome di Berlusconi nel segreto dell’urna a metà gennaio. 

“Solo che se anziché chiederci un patto, venite a pescare a tradimento tra i nostri, magari ottenete un voto ma ne perdete venti”, è stata allora la replica seccata del presidente ligure inviata a Paolo Barelli, capogruppo di FI alla Camera. “Del resto noi, che eravamo additati come i traditori, ora torniamo a essere ricercati”, se la rideva Paolo Romani, pure lui tra i dirigenti di Coraggio Italia, giorni fa. Gaetano Quagliariello, altra testa pensante alla corte di Toti e Brugnaro, invece no, non lo sondano. “Silvio sa quanto gli voglio bene, e forse proprio per questo sa che se me lo chiedesse gli direi di no”, spiegava il senatore a un gruppo di colleghi del Carroccio, esortandoli semmai a esercitare una moral suasion presso il loro segretario, che ieri ha sentito telefonicamente il leader azzurro: “Guardate che Salvini deve dissuaderlo finché è in tempo, Berlusconi, perché altrimenti sulla sua mancata elezione al Colle salta l’intero centrodestra, e la Lega si ritrova appiedata insieme alla Meloni”. Che è poi lo stesso scenario che venerdì scorso Matteo Renzi ha prospettato ai suoi parlamentari riuniti in assemblea. 

E non è un caso che proprio sondando il fronte sovranista si percepisca come un senso di vertigine. Perché Riccardo Molinari, ai suoi compagni leghisti che gli chiedevano scherzando della bricconata del Cav., ha risposto con tono grave che “quella di Berlusconi è una candidatura seria con cui bisognerà fare i conti”. E che non ci sia grande entusiasmo, dalle parti del Carroccio, su questa ipotesi, lo dimostra non solo la risata elusiva di Roberto Calderoli davanti alla buvette  del Senato (“Berlusconi al Colle? Dai, lasciatemi mangiare una pizzetta”), ma anche il fatto che chi tiene il pallottoliere in FI ha iniziato a segnalare ad Arcore anche i nomi dei possibili ammutinati tra gli alleati: “E uno come Igor Iezzi, salviniano di ferro che descrisse Silvio come uno zombie quando si candidò alle Europee, secondo voi lo vota al Quirinale?”. Presto per dirlo. “Di certo la condizione necessaria per noi sarà la tutela dell’unità della coalizione”, dice la meloniana Isabella Rauti, lasciando intendere che il rischio del big bang è percepito davvero, nel centrodestra. “E per ora, il nome di Berlusconi garantisce questa condizione”, dice la senatrice. Ripetendo, e scandendo bene, il suo “per ora, cioè in questa fase”. Una fase che durerà senz’altro anche fino a giovedì, quando il Cav. riunirà di nuovo Salvini e Meloni nella sua villa sull’Appia antica, e di lì fino all’inizio degli scrutini di metà gennaio. E poi chissà.

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.