il foglio del weekend

La politica intorno al tavolo. L'ultimo invito, quello di Salvini

Francesco Cundari

Tipica espressione del gergo politico e sindacale, è il primo passo di ogni accordo e l’ultima risorsa di ogni trattativa. Che si vada già mangiati oppure no

Matteo Salvini, forse scottato da qualche ironia di troppo sull’apparente insuccesso della sua recente iniziativa diplomatica, assicura che nessuno gli ha dato buca. Lo ha ribadito giovedì in modo chiarissimo: “Io ho invitato i miei colleghi segretari di partito e li inviterò, possibilmente anche prima della fine dell’anno, a incontrarci per parlarne a un tavolo, non sui giornali”.


A un tavolo, che non vuol dire a tavola, ovviamente. Anche se le due cose, in politica, hanno spesso coinciso: dal patto delle sardine, in casa del segretario della Lega, Umberto Bossi (che quello aveva in frigo), con Rocco Buttiglione e Massimo D’Alema (segretari, rispettivamente, del Partito popolare e del Partito democratico della sinistra), al patto della crostata, tra lo stesso D’Alema e Silvio Berlusconi. Gli accordi più significativi, tra avversari acerrimi, si sono siglati più di una volta sgranocchiando qualcosa. 


Cosa preveda in proposito il tavolo salviniano, se si debba andare già mangiati o se sia previsto almeno un veloce spuntino, un rinfresco, due stuzzichini, birra e pizzette, al momento non è dato sapere. Il leader della Lega però rivendica la centralità del suo ruolo: “Ho avuto l’ok da parte di tutti”. Ma questo, a dire la verità, non l’aveva negato nessuno, anzi. La ricostruzione fornita dalla maggior parte dei quotidiani, circa le risposte ricevute nel suo febbrile giro di telefonate, appena tornato dalla festa di Fratelli d’Italia, era stata proprio quella, un pressoché unanime: “Ok, ok”. Accompagnato magari da un garbato: “Ne riparliamo a gennaio”. E concluso, verosimilmente, da un cordiale augurio di buon Natale (immagino che nessuno abbia avuto il cattivo gusto di augurargli “buone feste”, se non altro per evitarsi il pippone sull’attacco del politicamente corretto euro-ateista alle nostre radici cristiane). 


Fatto sta che di passi avanti finora se ne sono fatti pochi, a quanto pare. L’impressione generale è che Salvini sia stato colto dall’ennesima crisi di gelosia nei confronti di Giorgia Meloni, visto il rilievo assunto nel dibattito sulla scelta del prossimo capo dello stato da Atreju, la festa di Fratelli d’Italia. E anche questi, obiettivamente, sono segni dei tempi.


Atreju, che sembra un’imprecazione in sardo e invece è il nome del protagonista di un fanta-polpettone di produzione tedesco-americana per bambini degli anni Ottanta, “La storia infinita”. Favola buonista con metafore elementari sul regno di Fantasia minacciato dall’avanzata del grande Nulla, o qualcosa del genere (da qualche parte ci sono pure “le paludi della tristezza”, giusto per darvi un assaggio della raffinatezza del simbolismo). Insomma, la versione euro-hollywoodiana e politicamente corretta di un cinepanettone per l’infanzia. Scelta obiettivamente bizzarra, per il partito di una donna-madre-cristiana che certo non ama le americanate, ma ce l’ha ancora di più con l’Europa di genitore 1 e genitore 2. A pensarci, è un po’ come se il Partito comunista avesse intitolato la sua festa a Zio Paperone.


Evidentemente i fratelli d’Italia volevano qualcosa che facesse assonanza con i campi Hobbit degli anni Settanta – assonanza, ma non proprio rima – per rimanere in tema e comunicare il messaggio di una continuità che non si voleva esplicitare troppo. O forse la ragione è semplicemente che il “Signore degli anelli” era comunque un mattone di oltre mille pagine, e non ne avevano ancora fatto un film. In ogni caso, almeno questa volta, non si può negare che l’operazione sia riuscita: per una settimana, non si è parlato che di Atreju. Tutti ci sono andati, alleati avversari, e tutti hanno detto la loro, da Enrico Letta a Giuseppe Conte, allo stesso Salvini, che però non deve avere gradito molto l’accoglienza, pare assai freddina, e non solo per il clima obiettivamente polare della settimana più gelida dell’anno (poteva comunque andargli peggio, come ad esempio a Letta, tanto coccolato e applaudito all’arrivo quanto sbeffeggiato due giorni dopo nel comizio di chiusura, in cui Meloni lo ha definito il “Casalino di Macron”). 


Indipendentemente dalla riuscita dell’operazione, si può capire però la reazione di Salvini. In politica contano anche i luoghi in cui le cose accadono, eccome. Non per niente si parla di posizioni, collocazioni, punti di riferimento e di orientamento. Contano i luoghi in cui si discute e i luoghi in cui si prendono le decisioni, se sono io che sono venuto a casa tua o sei tu che sei venuto a casa mia. E contano anche i nomi dei luoghi. Quante triviali ironie si sarebbero risparmiati D’Alema e Berlusconi, se solo la bicamerale non si fosse chiamata così. Dev’essere per questo che ogni volta, quando si ricomincia a parlare di riforme, c’è sempre qualche furbacchione che propone l’assemblea costituente: sentito come suona diversamente? Proprio per evitare qualunque tentativo di mostrificazione – del genere di quelli subiti a suo tempo proprio da D’Alema sulle cene a casa di Gianni Letta, culla di chissà quali scambi sottobanco, inconfessabili accordi, indecenti scambi di cortesie e confidenze – Renzi pensava di avere avuto un’idea brillantissima. Dovendo incontrare Berlusconi per siglare un accordo, deve aver pensato allora il segretario del Pd, la cosa migliore è riceverlo nella sede ufficiale del partito, a largo del Nazareno, davanti a tutti, alla luce del sole. Invece di “patto della crostata” lo chiameranno “patto del Nazareno”, e finirà esattamente allo stesso modo.


I democristiani, che la sapevano lunghissima, quando dovevano fondare una corrente, non per niente, andavo in un convento. Perché sarà anche vero che l’abito non fa il monaco, ma il monastero fa comunque tutto un altro effetto. Così i fanfaniani, per esempio, erano detti anche “camaldolesi”, per l’abitudine di riunirsi nel monastero di Camaldoli, dove nel 1943 era stato scritto il famoso codice, base del pensiero economico-sociale della futura Democrazia cristiana.


Ma il convento più famoso è senza dubbio quello di Santa Dorotea, dove si riunirono nel 1959 proprio i congiurati anti-fanfaniani della corrente maggioritaria, Iniziativa democratica, cui apparteneva lo stesso Amintore Fanfani. In quella fredda sera di marzo c’erano tutti: Mariano Rumor, Antonio Segni, Paolo Emilio Taviani, Emilio Colombo. Molti di loro diventeranno presidente del Consiglio, qualcuno (Segni) anche presidente della Repubblica. Decisi a porre un freno allo strapotere del leader, al tempo stesso presidente del Consiglio, ministro degli Esteri e segretario della Dc, e soprattutto alla sua linea di apertura nei confronti del Partito socialista. 


Dal nome del convento in cui si svolse la loro prima riunione saranno chiamati dorotei. A battezzarli così, in quello stesso Consiglio nazionale che li vedrà emergere come la corrente principale, il centro del centro della Dc, con l’accettazione delle dimissioni di Fanfani e l’elezione a segretario di Aldo Moro, sarà uno che di nomignoli se ne intendeva: Giulio Andreotti. Non solo. “Scoprì e naturalmente raccontò – ricorderà in seguito Colombo – che le suore, lì, rieducavano, chiamiamole così, le mondane. Insomma, sì: le prostitute”. A conferma di quanto, alle volte, nemmeno un convento è un luogo sufficientemente sicuro per proteggersi dalle malignità dei compagni di partito.


Sarà anche per questo che Conte, quando sente di dover dire qualcosa sul Quirinale, preferisce rifugiarsi nel non-luogo virtuale della rete, da dove può invocare lo spirito santo della democrazia diretta per cavarsi da ogni difficoltà, senza effettivamente dover andare da nessuna parte. E così anche questa volta annuncia il ricorso alle Quirinarie sul web. O per meglio dire, secondo il suo tipico modo di pronunciarsi su tutte le questioni di più scottante attualità, non lo esclude.


Del resto, in vicende delicate come queste, un po’ di prudenza è comprensibile. Anche perché, fino a non molto tempo fa, ai tavoli delle consultazioni con le altre forze politiche, rigorosamente trasmesse in streaming, i grillini ci andavano solo per rovesciarli, denunciare giochetti e manovre dei partiti, fare propaganda e fare casino. E adesso non è facile, per loro, individuare il luogo giusto, il tono giusto, la giusta liturgia con cui sostituire il rito catartico di un tempo: passare con disinvoltura dal vaffanculo al si accomodi, dal populismo al doroteismo (ammesso che ne abbiano davvero l’intenzione, al di là delle esigenze immediate, oltre che la capacità).


Sta di fatto che la situazione sembra essersi complicata parecchio, e i diversi protagonisti della partita sembrano tutti piuttosto imbambolati, più simili a comparse che a primi attori, incerti sul da farsi, incerti sul da dirsi e incertissimi anche sul dove dirselo. Forse anche per il timore, che per qualcuno è speranza, che alla conferenza stampa di fine anno ci  pensi Mario Draghi a toglierli dall’imbarazzo, chiudendo la partita prima ancora che sia davvero cominciata. 


Nel dubbio, intanto, annunciano, telefonano, prendono appuntamenti. “Ma i tavoli languono e per ora prevale la politica degli strapuntini”, come ha scritto Roberto Gressi sul Corriere della sera di martedì. Perché la politica è un gioco in cui si avanza e si retrocede secondo precise coordinate. Il che la rende simile, a volte, a un gioco dell’oca. E comunque, quasi sempre, a un gioco da tavolo.    


E così, ingelosito dalla riuscita della festa di Giorgia, Matteo ha cominciato a telefonare ai suoi “colleghi segretari di partito”, e poi a ripetere orgogliosamente ai giornali che nessuno lo ha mandato a quel paese, che sono stati gentilissimi e molto contenti dell’invito, e che gli hanno promesso che ci vengono tutti, al suo tavolo. D’altronde, si sa, al tavolo ci si siede sempre. E sarà anche per questo che le cronache ne sono così ricche. 


Tipica espressione del gergo politico e sindacale, il tavolo è il primo passo di ogni accordo e l’ultima risorsa di ogni trattativa. Non si crea e non si distrugge – semmai, si apre, come un pieghevole tavolo da picnic – perché è una risorsa naturale, inesauribile e indistruttibile, ma anche parte significativa del nostro patrimonio culturale. Il fatto che abbia infine chiamato a sé anche il populista Salvini, apparentemente così lontano dalle liturgie della Prima Repubblica, dimostra la persistenza di certi riti e di un certo lessico, come un imprinting. Una liturgia sopravvissuta ai partiti di massa, alla caduta del Muro di Berlino, alla fine della Guerra fredda e della Democrazia cristiana, e persino del proporzionale. Un galateo che certifica lo stato dei rapporti tra i commensali, in una precisa gerarchia di gesti e posizioni politiche: perché al tavolo ci si può sedere per discutere o solo per vedere le carte, ma anche per batterci sopra i pugni o persino per rovesciarlo. Si può abbandonare all’improvviso, ma sapendo che presto o tardi lì ci si tornerà a sedere, e si troverà sempre posto. Perché i tavoli della politica sono sempre lunghissimi ed eleganti, accoglienti e oblunghi, senz’ombra di spigoli. E nell’arredamento delle spoglie stanze di un partito, di una corrente o di una coalizione, svolgono una duplice, e preziosissima, funzione: riempire il vuoto e giustificare le poltrone.

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