Il racconto

Il ritorno alla Camera di Letta Montecristo: "Io candidato premier? Aspettiamo"

Applausi, pacche sulle spalle e un po' di emozioni per il leader dem sbarcato a Montecitorio dopo i successi alle comunali: "Abbiamo vinto troppo: è un guaio"

Simone Canettieri

Il primo giorno del segretario Pd alla Camera dopo sei anni. Applausi e pacche sulle spalle: "La Lega continua a fare interventi da opposizione"

Ride sotto la mascherina. Si accarezza la cravatta rossa (fa molto socialisti europei). Si ferma per ascoltare la domanda. Scusi, ma un segretario del Pd vincente non è  anche un naturale candidato premier? “Vediamo, è presto. Pensiamo a goderci la vittoria. Non è poco, no?”.   Il neo deputato eletto nel collegio di Siena e Arezzo è appena uscito dall’Aula.  Direzione: uffici del gruppo dem. Secondo piano. Ha rimesso piede alla Camera dopo sei anni di autoesilio francese. E’ stato a Parigi, certo. Mica ristretto  in una cella del Castello d’If. Ma cambia poco per il Letta di Montecristo. “Non nutro rivalse”. Gli occhi gli brillano sotto gli occhialini. 

Enrico Letta è il personaggio del giorno. Il più osservato. E salutato. Capannello di deputate M5s in cortile: “Chiediamogli se ci ricandida, siamo sempre state di sinistra!”.

Ha il passo lungo di chi marcia dopo aver espugnato bastioni: Roma, Torino, Napoli. E poi le conferme di Milano, Bologna... “Abbiamo vinto troppo, è un guaio in effetti”. Eppure, segretario, c’era un tempo in cui un suo predecessore, Pier Luigi Bersani, disse “abbiamo non vinto”. “Certo, ricordo molto bene”. 


Erano le elezioni politiche del 2013. Quelle che portarono Enrico Letta a Palazzo Chigi. L’inizio di una storia che si  interromperà con un “sereno” accoltellamento. Il primo addio, quello da premier. Che sarà seguito a luglio del 2015 da un altro passo indietro. Questa volta da deputato. Così parlò il Letta di Montecristo: “Do le dimissioni dal Parlamento, ma non dalla politica, perché dalla politica non ci si dimette”. Così è stato.  E’ partito rispondendo al richiamo della foresta del Nazareno, dopo lo strappo di Nicola Zingaretti. E adesso eccolo qui.

Deputato al secondo giorno di scuola (la prima elezione a Montecitorio risale al 2001, venti anni fa, con la Margherita, collegio in Piemonte). 

I fotografi lo aspettano sulle tribune della Camera. Obiettivi puntati, tipo plotone di esecuzione. “Ahó, è entrato”. Ha appena iniziato a parlare la ministra Luciana Lamorgese.  

Enrico Letta è in Aula. E la parte sinistra dell’emiciclo, dove siedono i suoi parlamentari, inizia ad applaudire. I più zelanti si alzano in piedi. Letta si batte la mano sul cuore. Applaude a chi lo applaude. Poi si mette seduto fra Enrico Borghi e Debora Serracchiani. Alessandro Zan è nella fila sopra. Gli stringe il pugno al cielo come si fa con i pugili che vincono il match (poi gli regala il suo libro “Senza paura, la nostra battaglia contro”, un modo per dirgli, forse, ricordati del ddl). Letta ascolterà l’intervento di Lamorgese battendo le mani due volte. Senza distrarsi con il cellulare (con cover di pelle a libretto un po’ da “ok boomer”).

Non prende la parola. Farà parte della commissione Esteri. Depositerà una proposta di legge sull’istituzione dell’Istituto italiano di Biotecnologie con sede a Siena e un’interrogazione per  il raddoppio della linea Siena-Poggibonsi (il suo ultimo intervento sei anni fa fu in dissenso con il gruppo: votò contro l’Italicum).  Routine da eletto del territorio. Quasi dettagli. Il segretario del Pd va un attimo inseguito prima che si infili nelle stanze dei gruppi.

Allora, impressioni? “Ho chiesto a Borghi la disposizione dei partiti all’interno dell’Aula, nel frattempo sono cambiate un po’ di cose”.

Crede davvero che Salvini non si staccherà presto dal governo? “Vediamo, di sicuro anche oggi con Lamorgese la Lega ha fatto un intervento da opposizione”. Letta sale le scale di Montecitorio due a due. Ha conservato L’esprit de l’escalier.  Ha dimostrato di saper incassare le offese, senza falli di reazione. Aspettando. E adesso frena gli entusiasmi post comunali.  Non vuole sentir parlare di legge proporzionale. Di prima mattina è uscito di buon umore dal Cremlino, come è chiamato il palazzone di Testaccio dove abita. Poi ha riunito la segreteria al Nazareno. Analisi del voto. E soprattutto del futuro. Ci raccontano questa frase del segretario: “Si fa il percorso con chi ci vuole stare e sarà la strada a definire i compagni di viaggio”. 


Il capo del Pd crede che in questo mondo esista solo una grande chiesa che passa  da Calenda e arriva fino a Conte. Pensa positivo. “Il M5s? Io non guardo in casa d’altri”, risponde lesto. Letta a chi gli misura i bicipiti in questo momento risponde con una battuta: “Guardate ragazzi che io non sono cambiato, basta riprendere il mio discorso da segretario del Pd”. Semplicemente è rimasto fermo, mentre gli altri hanno preso a girare su loro stessi.   Sale  l’ultimo doppio gradino e ride. E glissa all’idea di essere il candidato premier del nuovo Ulivo. Prima intanto c’è la partita del Colle (da Forza Italia e dal Pd raccontano di sempre più frequenti conversazioni  e incontri con lo zio Gianni: sicuramente parleranno del tempo).
 

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  • Simone Canettieri
  • Viterbese, 1982. Al Foglio da settembre 2020 come caposervizio. Otto anni al Messaggero (in cronaca e al politico). Prima ancora in Emilia Romagna come corrispondente (fra nascita del M5s e terremoto), a Firenze come redattore del Nuovo Corriere (alle prese tutte le mattine con cronaca nera e giudiziaria). Ha iniziato a Viterbo a 19 anni con il pattinaggio e il calcio minore, poi a 26 anni ha strappato la prima assunzione. Ha scritto per Oggi, Linkiesta, inserti di viaggi e gastronomia. Ha collaborato con RadioRai, ma anche con emittenti televisive e radiofoniche locali che non  pagavano mai. Premio Agnes 2020 per la carta stampata in Italia. Ha vinto anche il premio Guidarello 2023 per il giornalismo d'autore.