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I falchi liberali tedeschi non impensieriscono troppo Draghi. La Lega invece sì

Valerio Valentini

Gli attacchi di Lindner all'ex capo della Bce furono feroci. Ma a Palazzo Chigi si prevede un lungo negoziato a Berlino e si esclude che l'Fdp possa mettere a repentaglio la svolta europea sulle politiche di bilancio. Ma le strambate di Giorgetti sul Recovery plan annunciano un periodo turbolento per la maggioranza di governo

Il senso della cautela sta nella consapevolezza della prassi. “Due, forse tre mesi”. Tanto ci vorrà, secondo quanto pronosticano i consiglieri diplomatici di Mario Draghi, per arrivare alla formazione del governo in Germania.  Perché dunque agitarsi per scenari futuribili? Ma se il premier ritiene che non è utile preoccuparsi per un eventuale irrigidimento tedesco sul sentiero delle riforme europee, è anche perché scommette sul fatto che indietro, su quel sentiero, non si potrà tornare. E visto da questa prospettiva, anche il cosiddetto “spauracchio liberale” appare meno inquietante. Certo, la scelta di Olaf Scholz, leader vincente dell’Spd, di dichiararsi pronto ai negoziati per una possibile coalizione “Semaforo” con Verdi e Fdp, potrebbe non essere in teoria una buona notizia per l’Italia. Perché pare chiaro che Christian Lindner non vorrà compiere lo stesso errore  del suo predecessore alla guida dei Liberali, quel Guido Westervelle che nel 2009 accettò, pur di entrare al governo con la Merkel, di cedere alla Cdu il ministero delle Finanze ripiegando sugli Esteri, e condannandosi a un’irrilevanza che portò il suo partito alla disfatta. Lindner è stato chiaro: lui esige la Sanità, dove vuole seguire una linea meno rigorista, e le Finanze, dove invece proprio il rigore sarebbe la sua cifra. E questo potrebbe effettivamente guastare il clima in seno all’Eurogruppo, rimettendo in discussione l’agenda di questi ultimi due anni, improntata a una maggiore integrazione sulle politiche di bilancio e a una minore rigidità sui vincoli del Patto di stabilità, che resterà comunque sospeso fino al 2023. 

 

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E tuttavia la serenità condivisa tra Palazzo Chigi e il Mef poggia sulla convinzione che, più di tanto, neppure un eventuale liberale alla guida delle casse di Berlino potrebbe compromettere questo percorso. Anzitutto per dinamiche internazionali. Perché un’eventuale riproposizione della politica del rigore à la Schäuble, il falco della Cdu a cui Lindner ha sempre dichiarato stima, finirebbe col non tenere conto della diversa fase in cui ci si trova a Bruxelles. E non solo perché la pandemia ha ridefinito paradigmi e tabù. Ma anche perché la Francia di Emmanuel Macron, certo anche in virtù della presenza a Palazzo Chigi di quel Draghi che ieri Bloomberg esaltava come la vera guida dell’Europa post-Merkel, non asseconderebbe un rinnovato irrigidimento di Berlino. E d’altronde la stessa Fdp faticherebbe non poco a sostenere una simile posizione all’interno del suo gruppo di appartenenza al Parlamento europeo. Che è appunto quello macroniano di Renew, dove certe impuntature della leader liberale Nicola Beer vengono già oggi sopportate con malanimo. “Non solo sulle politiche di bilancio, ma anche sul tema della transizione verde e digitale – dice l’eurodeputato Sandro Gozi, che con l’Eliseo ha un filo diretto –  la Germania non potrà che essere una convinta fautrice dello sforzo comune per definire una politica industriale europea integrata”. E insomma  si capisce perché  Enzo Amendola, responsabile dei Rapporti con l’Ue per Palazzo Chigi, ai parlamentari del Pd che gli chiedevano ieri un parere, predicava anzitutto la calma, esortandoli ad apprezzare il dato solo apparentemente più scontato del voto tedesco: “L’europeismo stravince, l’euroscetticismo non ha prospettive”.

 

Da qui deriva allora la convinzione che, quand’anche Lindner arrivasse davvero a guidare la politica finanziaria tedesca, metterebbe da parte l’intrepida retorica degli anni passati – quando si scagliava contro il Draghi che “mortificava il risparmio dei teschi” coi suoi “trucchi magici della Bce” messi in atto per evitare ai paesi indebitati l’onere di fare le riforme – e si concentrerebbe semmai su questioni interne. Come, ad esempio, la battaglia cara all’Fdp per scongiurare la discussa riforma costituzionale che vorrebbe il superamento dell’obbligo del pareggio di bilancio. 

Per il resto, la preoccupazione di Draghi rispetto alla transizione europea in atto è più che altro concentrata sulla dialettica politica di casa nostra. Perché in fondo la principale padrona del destino del Recovery plan è proprio l’Italia, chiamata a togliere ogni alibi ai falchi del nord e a fare le riforme necessarie a realizzare il Pnrr. E certo le strambate di chi nella Lega, come Giancarlo Giorgetti, gli consiglia di andarsene al Quirinale per sottrarsi al Vietnam parlamentare che scatterà a gennaio prossimo, con la rassegnazione che tanto le risorse europee verranno “buttate via” da chi arriverà a Palazzo Chigi dopo di lui, non sembrano rassicuranti. 
 

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.