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Stop alla classifica per gli investimenti della World Bank. I dati erano falsati

Stefano Cingolani

Il caso Evergrande mette in dubbio gli studi "Doing Business" dell'istituzione internazionale

Fare business in Cina? Fantastico, perfetto, si può fare nel migliore dei modi possibili. O quasi. E i debiti nascosti, e le manipolazioni del regime e il crac immobiliare e Evergrande? Quisquilie, bazzecole, incidenti di percorso. Sapienti manine ai piani alti della Banca Mondiale aggiustavano i dati e via andare. Non solo le cifre cinesi, anche quelle di altri paesi, anche per creare una cortina fumogena (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Cile, Azerbaijan), ma Pechino è Pechino. Il trucco è stato scoperto, nei guai sono finiti l’allora presidente della World Bank, l’americano di origine coreana Jim Yong Kim, e la bulgara Kristalina Georgieva a quel tempo direttore esecutivo e oggi numero uno del Fondo monetario internazionale. Risultato, in attesa di sviluppi giudiziari, è che l’intero Doing Business (così si chiama la classifica che stabiliva le condizioni per investire e produrre in ogni singolo paese) è stato interrotto.

 

Via il bambino con l’acqua sporca. Il sospetto scavava come una talpa da tempo, finché l’anno scorso l’inghippo è venuto alla luce; a quel punto è stata la stessa World Bank, presieduta da David Malpass, a commissionare un’indagine esterna, questa sì davvero indipendente. Giovedì scorso con un comunicato ufficiale sono state ammesse le manipolazioni. Per molto tempo pubblicazione di punta per la Banca Mondiale, ogni anno Doing Business faceva notizia sui media e i paesi cercavano di migliorare la loro classifica, apportando modifiche alle politiche per attirare denari e imprese. Il rapporto spingeva i governi ad aumentare l’efficienza, la produttività, la capacità  di ottenere licenze, a utilizzare al meglio le infrastrutture o pagare regolarmente le imposte. Gettarlo nel cestino, dunque, è un errore. 

Secondo l’inchiesta condotta dallo studio legale WilmerHale, i  funzionari cinesi nel 2018 erano desiderosi di migliorare la loro pagella, così Kim, la Georgieva e il loro staff avevano tenuto una serie di incontri per discutere i modi in cui la metodologia del rapporto potesse essere modificata per migliorare la classifica della Cina. Pechino, ad esempio, aveva approvato una legge relativa alle transazioni garantite, come quelle relative alla concessione di un finanziamento. Lo staff della Banca mondiale decise che grazie a questa legge potevano soddisfare i propri vertici migliorando il punteggio relativo ai diritti legali. Molti sapevano che i cambiamenti non erano appropriati, ma avevano paura di ritorsioni, svela l’inchiesta. Anche quando la raccolta e la scansione dei dati erano terminate, gli economisti della Banca mondiale avevano riaperto le tabelle e alterato i risultati della Cina facendola risalire dall’85esimo al 78esimo posto. Non un grande salto per la verità, si potrebbe dire che l’onore è stato venduto per un piatto di lenticchie, ma anche qualche scalino più in alto significa un flusso di miliardi, visto anche il volume degli affari con la Cina. 

Kristalina Georgieva si dichiara “fondamentalmente in disaccordo” con i risultati dell’indagine, ma già nel 2018 il capo economista della Banca mondiale, Paul Romer, aveva riferito, in un’intervista al Wall Street Journal, la sua preoccupazione che Doing Business venisse alterato per scopi politici. Romer aveva detto di non aver fiducia in una serie di cambiamenti metodologici che avevano abbellito la classifica del Cile sotto i governi conservatori peggiorando la situazione sotto i governi socialisti. A destra come a sinistra, insomma, una lunga serie di manipolazioni ad usum delphini. La Banca mondiale aveva negato tutto e l’economista si era dimesso. Dopo le polemiche contro l’Organizzazione mondiale della sanità sul Covid-19 e il comportamento della Cina (sempre lei), dopo i ripetuti scandali che hanno oscurato la reputazione dell’Onu, anche il pasticciaccio di Doing Business solleva interrogativi sull’autonomia di giudizio e l’effettiva indipendenza delle istituzioni che hanno segnato l’ordine mondiale scaturito dalla vittoria alleata contro il nazifascismo. Intendiamoci, non si tratta di creature che calano dall’empireo, all’Onu comandano i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza (Usa, Russia, Cina, Regno Unito, Francia); il Fmi e la Banca mondiale sono gestite pro quota dai paesi aderenti (alla World Bank gli Usa con il 16 per cento hanno sempre avuto il presidente fin dalla fondazione nel 1944 a Bretton Woods, mentre al Fmi c’è una rotazione tra i contribuenti). Tuttavia la discrezionalità è umana, anzi inevitabile, la falsificazione è diabolica.

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