Berlusconi e Draghi, due stili diversi

Il salesiano ti seduce ma il carisma del gesuita ti conquista

Francesco Palmieri

Impossibile pensare al Cav. adolescente assorto nella meditazione dei peccati, o all’ex capo della Bce nel campetto dell’oratorio. I metodi di don Bosco e Ignazio di Loyola, lontani ma complementari

 

“Chi studia attentamente la vita del Sales, troverà che, fin dai primi anni, egli fu modello di una santità non austera e cupa, ma amabile e accessibile a tutti”.
Pio XI, Lettera enciclica
“Rerum Omnium Perturbationem”


“Todos los que emitieren la profesión en esta Compañia tengan presente, no sólo al principio, sino durante toda su vida, que esta Compañia y todos los que en ella profesan son soldados de Dios…”
San Ignacio de Loyola, 
Fórmula del Instituto

 

 

E’ un gesuita il più famoso ex allievo salesiano. Ed è il primo gesuita diventato Papa. Del collegio di Ramos Mejía, Jorge Mario Bergoglio scriverà anni dopo di non aver dimenticato quella “cultura cattolica che non era per nulla ‘bigotta’ o ‘disorientata’” né “lo studio, i valori sociali di convivenza, i riferimenti sociali ai più bisognosi”. Nuovamente a novembre scorso, per il novantesimo anniversario della scuola argentina, la esortò con un messaggio a continuare l’opera sulle orme di san Giovanni Bosco, il padre della Famiglia salesiana: “La vita scolastica era un ‘tutt’uno’, e non c’era tempo per annoiarsi: studio, condivisione, preghiera, attenzione ai più poveri, attività manuali; tutto ciò che facevamo e imparavamo aveva unità armoniosa e ci preparava alla vita, con un senso di responsabilità e un orizzonte di trascendenza”.

 
Allievo salesiano poi padre gesuita (con un intermezzo in seminario tra parecchi amici domenicani), Papa Francesco stempera i contrasti di colore fra due distinte rappresentazioni della Chiesa, due stili, due approcci e modelli di cristianità che certo non si contraddicono, ma la dicono diversamente. Opposti complementari, strade diverse che agognano alla stessa meta, compatibili declinazioni dove ciascuno, indirizzato dal temperamento o dalla Provvidenza, se cerca trova il suo posto. Per scherzarci un po’ su, accade più o meno come alla Scuola di Hogwarts in Harry Potter (ovviamente si parva licet) dove certi aspiranti maghetti vanno nella Casa Grifondoro mentre altri vengono destinati a Serpeverde.


Guai d’altronde a inoltrarsi nel campo minato delle sottigliezze dottrinali, da cui non è agevole sortire indenni. Però una cosa è palese persino a noi osservatori della strada: la sontuosa differenza tra un Silvio Berlusconi e un Mario Draghi – parliamo di coloritura più umana che politica – si spiega meglio ricordando che l’uno frequentò l’oratorio salesiano mentre l’altro praticava gli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio di Loyola. Non si potrebbe immaginare un giovane Draghi che serve il pasto ai bisognosi ancora sudaticcio dopo una sfida a pallone all’Istituto Sant’Ambrogio di Milano; né il Cavaliere adolescente assorto nella meditazione dei peccati o contemplante il mistero dell’incarnazione durante gli Esercizi ignaziani al liceo Massimo, mentre fiorisce la primavera sul vicino laghetto dell’Eur e le ragazze passeggiano fra i profumi dei ciliegi giapponesi.


E si capisce come alcuni tratti arguti, persino illusionistici di Umberto Eco riverberassero la frequentazione del Don Bosco di Nizza Monferrato, mentre quel certo aplomb di Mario Monti lo riconduce al liceo classico Leone XIII. Fondato per celebrare il ritorno dei gesuiti a Milano nel 1893, l’istituto fu riedificato dopo i bombardamenti dell’ultima guerra e oggi vanta impianti didattici e sportivi d’avanguardia, dove tanti maturandi “leoniani” si candidano alla frequenza di Harvard e Yale. Eppure non fu estranea, ma al contrario ricorrente la seduzione gesuitica per Eco, al pari di molti raffinati laici con trascorsi giovanili nell’Azione Cattolica, i quali lambiscono la Compagnia più per la sua sulfurea leggenda che per i 50 santi e 146 beati consegnati alla Chiesa a partire dal 1540.


“I gesuiti avevano capito che, se si vuole destabilizzare l’avversario, la tecnica migliore è creare delle sette segrete, attendere che gli entusiasti pericolosi vi si precipitino, e poi arrestarli tutti. Ovvero, se temi un complotto, organizzalo, così tutti quelli che potrebbero aderirvi cadono sotto il tuo controllo”, scriveva Eco ne Il pendolo di Foucault, dove non poteva mancare – nel pot-pourri esoterico a scopo canzonatorio (ma forse neanche troppo) – una figura come Athanasius Kircher, epitome del gesuita secentesco che si produce in complicate acrobazie mentali tra geroglifici, idiomi estinti e indagini alchemiche. Ben diverso, e autobiografico, è nel romanzo il capitolo affettuoso dedicato al ricordo dell’istituto salesiano dove il personaggio Jacopo Belbo apprese, oltre alle devozioni, l’arte del flicorno contralto nella banda diretta da Don Tico: “Non sono più tornato all’oratorio. Ci ero capitato per caso: la messa, il catechismo, tanti giochi, e si vinceva un’immaginetta del Beato Domenico Savio, quell’adolescente con i pantaloni spiegazzati di panno ruvido, che nelle statue sta sempre attaccato alla sottana di don Bosco, con gli occhi al cielo, per non sentire i compagni che raccontano le barzellette oscene”.


E’ proprio lui, Domenico Savio (canonizzato nel 1954), figlio di un fabbro e di una sarta, l’archetipo del giovane santo salesiano, laddove quello del “leoniano” milanese potrebbe essere il cinquecentesco marchese Luigi Gonzaga, che a ogni privilegio rinunciò per farsi “come gli altri”, e divenuto gesuita morì a ventitré anni assistendo gli appestati. E se è proverbio che la Compagnia non festeggi altri santi all’infuori dei propri, è invece un fatto che don Bosco proponesse ai suoi alunni Gonzaga quale modello esemplare, dedicandogli la pratica delle “sei domeniche e la novena”, scandite dalla preghiera che compose per lui (incipit: “Luigi Santo, di angelici costumi adorno, io indegno vostro divoto, umilmente prostrato dinanzi a Voi, adoro quella Maestà infinita, che vi elevò a tanta gloria”). Eppure quanto appare diversa la ricetta salesiana della santità, se il suo primo ingrediente, indicato da don Bosco al piccolo Domenico, è “l’allegria”, presupposto per l’impegno nei doveri, nella preghiera e nelle opere buone.


“Perché quella dei salesiani non è una santità dettata da chissà quali contorsioni ascetiche. Fiorisce piuttosto dall’adempimento dei propri compiti, che conduce alla serenità interiore fino alla capacità di offrire la vita per gli altri. L’obiettivo di san Giovanni Bosco era formare buoni cristiani e onesti cittadini, una meta che si costruisce giorno per giorno senza inutili protagonismi”, ci spiega don Giuseppe Costa, già docente di Giornalismo all’Università Pontificia Salesiana e all’ateneo di Catania, che ha guidato la Società Editrice Internazionale e diretto il Bollettino Salesiano per dieci anni. “L’impostazione educativa salesiana è apparentemente molto semplice, ma in realtà molto esigente perché punta al cuore del ragazzo, gli si mette al fianco e lo fa crescere stimolando le sue energie positive. Il padre salesiano è un ‘animale da cortile’ e l’oratorio è un paradigma di vita, dove però c’è sempre qualcuno che interviene, che offre sostegno e corregge, mentre questo non accade se un ragazzo è lasciato sulla strada”, aggiunge don Costa. E spiega: “Noi non proponiamo esperienze pesanti come il mese ignaziano di Esercizi Spirituali. Preferiamo un campeggio dove i nostri giovani possano meditare, giocare e pregare, rispetto a un sistema che ruota attorno al ‘discernimento spirituale’”.

 


E’ la traduzione pratica delle considerazioni esposte da san Francesco di Sales nella Filotea, il “povero libretto” continuamente ristampato dal 1608. “La devozione”, precisava, “deve essere vissuta in modo diverso dal gentiluomo, dall’artigiano, dal domestico, dal principe, dalla vedova, dalla nubile, dalla sposa; ma non basta, l’esercizio della devozione deve essere proporzionato alle forze, alle occupazioni e ai doveri dei singoli”.


Le parole di don Costa, ma al contempo le suggestioni giovanili di Umberto Eco, sono rilanciate dall’economista Giulio Sapelli, il quale da torinese visse la sua esperienza nella prima città dove operò Don Bosco: “Negli oratori salesiani si giocava a calcio con quei preti che vestivano ancora la lunga tonaca”, ci racconta, “e ne conservo tuttora un ricordo di grande familiarità e dolcezza. Ho frequentato gli oratori dai sei ai quattordici anni, ma ho continuato ad andarci fino ai venti, che già ero iscritto alla Federazione Giovanile Comunista. Non vi trovavo alcuna contraddizione, tutt’al più i padri salesiani mi prendevano un po’ in giro e ne scherzavamo. Chissà se i gesuiti me lo avrebbero permesso…”. Il merito prezioso di don Bosco, secondo Sapelli, è stato quello di cercare un’unione tra proletariato e aristocrazia, vivificando anche la borghesia: “La sua idea, straordinariamente moderna, fu che per salvare il popolo devi toglierlo dalla strada. Purtroppo adesso noi gli diamo da mangiare ma sulla strada lo lasciamo, mentre il messaggio di Don Bosco era che chi non lavora non mangia. Mi sembra che alla Caritas, invece, il povero venga assistito però resti subalterno. Credo non si possa completamente capire l’ascesa industriale italiana senza considerare le scuole di arti e mestieri salesiane. E la torinesità di quel santo, che da conservatore esprimeva anche il rigore produttivistico di una capitale industriale e militare”. Sapelli guarda invece al modello gesuita come “a un cristiano che si muove dall’alto. Fa più guerra di posizione che di movimento. Direi con una metafora che a Torino si occupavano le fabbriche mentre a Roma si puntava al Ministero dell’Interno. Oppure, prendendo a paragone il vecchio Pci, Don Bosco fu un gramsciano ante litteram laddove i gesuiti sarebbero stati bordighisti”.


Metodi assai diversi per uno stesso scopo. Inclusa, e spiegata, quella propensione della Compagnia di Gesù a operare “là dove è maggiore il bisogno, dove altri non lavorano, dove il lavoro apostolico è più difficile e più pericoloso”, ma anche “dove ci sono persone o categorie di persone che hanno molto influsso sugli altri, perché – è questa la grande massima di sant’Ignazio di Loyola – ‘il bene quanto più è universale, tanto più è divino’”, affermava padre Giuseppe De Rosa, articolista per oltre mezzo secolo della rivista gesuita La Civiltà Cattolica scomparso giusto dieci anni fa.

 


Ma qual è il debito verso la propria formazione gesuitica di chi avrebbe, poi, avuto “molto influsso sugli altri”? L’attuale presidente del Consiglio, Mario Draghi, diede questa risposta quando fu invitato a celebrare il liceo Massimo: “Un messaggio morale pervadeva un po’ tutta la giornata che si passava a scuola, un messaggio che le cose andavano fatte al meglio delle proprie possibilità, che l’onestà era importante, ma poi soprattutto che tutti noi eravamo speciali in qualche modo, non tanto perché andassimo al Massimo, ma come persone umane. Al di là di quel che potevamo fare come alunni, al di là di quanto potessimo apprendere, avevamo un compito nella vita. Che poi il futuro, la fede, la ragione, la cultura, ci avrebbero rivelato”.


Stesso liceo (prima donna ammessa nel ’73) frequentò la diplomatica Elisabetta Belloni, che proprio Draghi ha di recente chiamato dalla segreteria generale della Farnesina alla guida del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza. Ricorda così: “Quel che ho recepito dall’insegnamento dei gesuiti è stato sempre l’elemento di libertà e ciò si applica anche alla fede. Nel trasmettere il messaggio di fede i gesuiti non avevano l’obiettivo di imporre un determinato percorso, ma volevano soprattutto aiutare a porci quesiti ai quali le risposte dovevano venire da noi stessi. Se ne parlo ancora oggi con alcuni amici gesuiti, ci divertiamo a ripercorrere gli annuari scolastici e a ritrovare alcune personalità eminenti della vita politica e pubblica italiana, molte delle quali si sono discostate dalla fede. Scherzando dico sempre: questo è il risultato di un percorso di libertà…”.


E’, quello della libertà, il terreno scivoloso ma ineludibile su cui i gesuiti si ritrovano a esercitare l’arte impegnativa del ‘discernimento’, che serve “per sentire le cose di Dio a partire dal suo ‘punto di vista’”, diceva Papa Francesco in un’intervista a padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica: “La sapienza del discernimento riscatta la necessaria ambiguità della vita e fa trovare i mezzi più opportuni, che non sempre si identificano con ciò che sembra grande o forte”. Secondo Bergoglio, la Compagnia di Gesù non può essere descritta a tinte nette, ma “solamente in forma narrativa. Solamente nella narrazione si può fare discernimento, non nella esplicazione filosofica o teologica, nelle quali invece si può discutere”. Pertanto il gesuita “deve essere una persona dal pensiero incompleto, dal pensiero aperto”. In altre parole “il gesuita è un decentrato. La Compagnia è in se stessa decentrata” perché non si guarda allo specchio, ma “è un’istituzione in tensione, sempre radicalmente in tensione”. Questo giustifica meglio anche le incongruenze negli annuari del liceo Massimo su cui scherzava Elisabetta Belloni con gli amici sacerdoti, frutto di quelle great expectations rimembrate da Draghi e arcuate durante la giovinezza su un domani “che poi la fede, la ragione, la cultura, ci avrebbero rivelato”. Un percorso, come si sa, ambizioso: “Non ci occupiamo di istruzione per il proselitismo, ma per la trasformazione” ribadì il penultimo preposito generale della Compagnia, Adolfo Nicolás: “Offriamo un’educazione cristiana, perché siamo convinti che Cristo offra una visione di una umanità più piena, che porta la persona al di là di se stessa in nome della cura e della preoccupazione per gli altri”.

 


Il “pensiero aperto” dei gesuiti costituisce la sfida ricorrente della Compagnia anche per i fraintendimenti cui risulta esposto. Ne sono state clamoroso esempio le polemiche suscitate dall’attuale ‘papa nero’ Arturo Sosa Abascal. “Dal mio punto di vista, il male forma parte del mistero della libertà”, disse in una intervista a El Mundo nel 2017, aggiungendo: “Abbiamo plasmato figure simboliche, come il diavolo, per esprimere il male”. Lo ripeté al Meeting di Rimini due anni dopo: “Il diavolo esiste come realtà simbolica, non come realtà personale”. Fu investito allora dalla sdegnata reazione dell’Aie, l’associazione dei sacerdoti esorcisti, e di quanti gli rinfacciarono sia il Catechismo sia una recente esortazione apostolica del Papa (Gaudete et exsultate) in cui si riaffermava la realtà “personale” del principe del male. Sciascia ne avrebbe tratto nuovo materiale di scrittura, magari ampliando la “sfera del paradosso” che maneggiava così bene il suo padre gesuita don Gaetano, animatore degli Esercizi Spirituali all’Eremo di Zafer nelle pagine romanzesche di Todo modo: “…Ma non meno astutamente, i tre vescovi e i due devoti elusero la discussione teologica (e mi delusero); e si diedero a parlare del discorso di Paolo VI sul diavolo come di un fatto puramente burocratico, di una circolare ministeriale; e del papa come di un ministro i cui decreti, più o meno maldestri, più o meno oscuri, sono poi opera dei direttori generali…”.


Come tra guardie e ladri le prime affinano la conoscenza dei secondi al punto di ricorrere ai medesimi artifici per contrastarli, così fece sull’esempio di sant’Ignazio – ma dirottando il discernimento su scopi secolari – il gesuita Baltasar Gracián nel sofisticato Oracolo manuale ovvero l’arte della prudenza. Rielaborò per diplomatici, politici, negoziatori, centinaia di aforismi come quello che insegna a “entrare con l’altrui volontà per uscirsene con la propria”, plasmato in origine da sant’Ignazio per giocarsi del demonio con più astuzia delle sue astuzie. E’ l’enorme territorio dell’infingimento, quello esplorato dal pensatore barocco Torquato Accetto nel trattatello Della dissimulazione onesta, che Benedetto Croce trasse dall’oblio e in cui si proclamava come celando una intenzione sotto “tenebre oneste” “non si forma il falso, ma si dà qualche riposo al vero, per dimostrarlo a tempo”. Persino con se stessi.


Siamo tornati insomma nella zona chiaroscurale che ispirò a Umberto Eco le righe del Pendolo sui gesuiti. Magari con la voglia, se la virtù deve proprio transitare per certi giochi di prestigio, di scegliere piuttosto quelli per cui è famoso, sull’esempio di Don Bosco, il piemontese don Silvio Mantelli in arte Mago Sales, tra i maggiori illusionisti italiani e titolare con ventimila volumi della prima biblioteca europea specializzata nel settore. Il celeberrimo Silvan gli ha dedicato una pagina della sua recente La nuova Arte Magica, ricordando che il sacerdote “si è esibito anche per madre Teresa di Calcutta, che lo ha elogiato per le sue molte donazioni destinate con scrupolo religioso alla costruzione di ospedali, case e chiese per le popolazioni indigenti”, dall’Africa all’Indonesia al Brasile. (In effetti san Francesco di Sales incoraggiava, quali “divertimenti buoni e onesti”, i giochi di destrezza e d’inventiva, dalla pallacorda agli scacchi, condannando invece quelli d’azzardo come “cattivi e riprovevoli”. Così don Bosco: “Vi concedo volentieri que’ divertimenti che non sono peccati”).

 


Salesiani e gesuiti, insomma sì, vanno per schemi molto diversi. “C’è un vecchio detto nella Chiesa: due sole cose Dio non sa, cioè cosa hanno in testa i gesuiti e dove prendono i soldi i salesiani. Ossia la sottigliezza e la cerebralità degli uni e la praticità degli altri”, osserva Nicola Graziani, vaticanista dell’Agenzia Italia: “Ma in realtà, poiché la Chiesa ama anche confondere i ruoli, i gesuiti mostrano all’occorrenza una vena pratica e i salesiani conducono tante scuole e università. Ti pare che la Chiesa possa lasciare a qualcuno l’esclusività di un ruolo? Parcellizzare troppo le competenze non andrebbe bene, è meglio avere più pozzi dove attingere la stessa acqua”. Certo “vedere un gesuita in maniche di camicia può accadere, ma è più facile vederlo in clergyman. Mai azzimato, sempre preciso. Non c’è la minima concessione alla vanità ma un ordine – aggiunge Graziani – meticolosamente osservato. Il salesiano invece ha l’aspetto di quello con le maniche rimboccate perché sta andando a stringere un tubo dell’acqua, per lui la giacca del clergyman è un optional e più spesso gira con un enorme mazzo di chiavi alla cintura: aprono le sale dell’oratorio, lo stanzino dei palloni… I gesuiti nascono in un periodo di sfida dottrinale: ed è logico che su questa si siano plasmati. In tempi di ‘cuius regio, eius religio’ si sono concentrati sulla predicazione anche presso i potenti, non a caso sono loro che hanno inventato i licei e quell’esercizio che, almeno per il classico, ne è stato l’emblema: il tema d’italiano. L’originaria vocazione a creare relazioni e influenze è rimasta parte integrante del loro Dna, basti pensare a esperienze recenti come la Primavera di Palermo degli anni Ottanta. Invece quando nacquero i salesiani, nell’Ottocento, il ‘cuius regio, eius religio’ s’era trasformato nella Questione Sociale: non si trattava più di sussurrare all’orecchio del signore affinché il corpo sociale lo seguisse, ma si dovevano affrontare i problemi della persona umana, quelli più concreti, e i giovani cui ci si rivolgeva non avevano bisogno di precettori ma di insegnanti: l’intento era occupare la società non più dall’alto, ma dal basso per plasmarla secondo valori cristiani”.


Entrambi gli ordini si sono sperimentati all’estero con le missioni, i salesiani cominciando dall’Argentina al seguito dell’emigrazione italiana; i gesuiti prima in Asia con san Francesco Saverio, quindi in America Latina tra i guaranì con le Reducciones, esperimenti sociali che finirono per impaurire i monarchi di Spagna e Portogallo “ma che persino Voltaire, nel Candido, svillaneggiò”, ricorda Graziani, “perché era tutta una certa Europa a temere la diffusione di quei modelli. E mi viene da dire ammirato: però, che gente…”.


E che gente, chissà che gente sarebbe stata, viene da dire concludendo, quella che conosciamo. Chi saremmo stati noi tutti se ci fossimo seduti sui banchi di altre scuole, con altri professori, diversi compagni. Chissà che film avrebbe fatto Paolo Sorrentino, che programmi Pippo Baudo se anziché dai salesiani avessero studiato con i gesuiti. O se Papa Francesco si sarebbe fatto salesiano se fosse andato prima a scuola dai gesuiti. E Berlusconi, Draghi? No, loro no: diversamente proprio non li riusciamo a immaginare.

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