GIROTONDO

Cento giorni di Draghi. Fenomenologia di un leader

Francesco Corbisiero

Semplifica, media, sfugge alla dittatura del sentiment. Un bilancio degli esordi tra politica e comunicazione. Girotondo fogliante con Panebianco, Campi, Comin e Velardi

Cento giorni sarebbero un periodo di tempo sufficiente per tracciare il bilancio dell’esordio di un governo guidato da chiunque, non in questo caso. Impeccabile civil servant abituato alla mediazione, stimato e conosciuto nelle cancellerie continentali e nelle istituzioni europee, Mario Draghi giurava nelle mani del presidente della Repubblica il giorno di San Valentino, poco più di tre mesi fa. Per l’occasione, l’emergenza sanitaria scompaginava il cerimoniale e imponeva ai ministri la distanza di sicurezza di un metro di fronte ai flash dei teleobiettivi. Niente assembramenti, anche le intese sono larghe. Da allora, sembra cambiato tutto. 

 

 

Dopo alcune incertezze, il piano d’immunizzazione ha conosciuto un’intensa accelerazione: è bastato semplificare, accentrare, cambiare qualche nome. I nomi, appunto. Il metodo dello spoil system è stato applicato in rapida successione a diversi ruoli apicali: fuori tutto il comitato tecnico-scientifico, Borrelli, Arcuri, Vecchione, Parisi; dentro Curcio, Figliuolo, Belloni e più poteri a Nicastro. Il piano per accedere al Recovery Fund riveduto e corretto, e soprattutto ampliato nella parte che riguarda le riforme da approvare, è stato presentato e si attende ora il vaglio della Commissione europea. “In questo caso, la partita è alle battute iniziali e appare da subito complicatissima, perché saremo valutati sulla base dei risultati, non delle intenzioni”, spiega al Foglio Alessandro Campi, professore di Scienza Politica all’università di Perugia. “L’Ue – prosegue – non cederà su nulla e i tempi stringono. In più, le regioni hanno dato prova di non essere attrezzate per l’investimento dei fondi europei e l’apparato ministeriale ha dimostrato di andare in tilt quando si occupa di grandi piani d’investimento pubblici”. E qualcosa ha cominciato a muoversi pure nel cantiere delle riforme, ma serve responsabilità. “Il principale punto debole mi sembra la maggioranza parlamentare su cui poggia il governo, per niente riformista e molto divisa su temi cruciali come immigrazione o giustizia”, nota Angelo Panebianco, professore emerito dell’Università di Bologna. 

 

Entrambi gli accademici concordano sul maggior punto di forza dell’esecutivo: proprio lui, il capo del governo. “La sua capacità di relazione e il prestigio acquisito a livello internazionale fanno di lui un interlocutore ascoltato in Europa e negli Stati Uniti” aggiunge Panebianco. Merito delle parole che dice, quando parla. “Rassicuranti per lo spessore intellettuale che contengono e per la loro semplicità: ognuna ne sottende molte altre e tutte vanno a segno. Così le ha descritte una mia parente. Non mi sento di darle torto”, riconosce Claudio Velardi, già spin doctor ai tempi di Massimo D’Alema a Palazzo Chigi. Perché così tanta riluttanza, allora, nel rilanciarle? “Primo: perché Draghi è cresciuto da grand commis nel mondo della finanza, dove questo modo di porsi rappresenta la prassi. Secondo: al momento non ha bisogno di raccogliere intorno a sé un consenso elettorale”, ci dice Gianluca Comin, docente di strategie di comunicazione alla LUISS Guido Carli. 

 

Se sul terreno politico chi lamentava la scarsa rottura rispetto al recente passato si è dovuto presto ricredere, sul piano della comunicazione è stato il premier ad adeguarsi, mantenendo però una postura tutta sua. Arrivato nella stanza dei bottoni, l’ex numero uno della Bce si è messo alla ricerca nientemeno che di un social media manager. Anche perché, in sua assenza, i cahier de doléances degli utenti della rete cominciavano ad arrivare a pagine Facebook non ufficiali, gestite da giovani supporters impazienti di rispondere con ironia e abbondante fantasia. A inizio aprile, la svolta: una profilo su cui diffondere ogni aggiornamento sull’agenda. Nome disadorno, numero di fan nell’ordine delle centinaia di migliaia, post scritti in terza persona singolare, nessuno escluso. La scelta è stata quella di spersonalizzare: zero dirette a tu per tu, nessuna dichiarazione ficcante, niente foto piacione, bando a qualsiasi contenuto in grado di strizzare l’occhio ai gusti dell’utente. La linea va dettata, non inseguita, e la linea è istituzionale. Lecito allora chiedersi se tramonti la comunicazione ad ogni costo o siamo di fronte all’eccezione che conferma la regola. Davvero Draghi può sovvertire questa dinamica? “Non credo, almeno non fino a quando non s’imporrà un nuovo modello”, osserva con scetticismo Comin. “La comunicazione sobria e misurata di Draghi è soltanto un intervallo da quella gridata dei predecessori e – com’è probabile – dei successori”. Per altri, la cesura è ben più netta, forse addirittura irreversibile. “Prima vivevamo nella bolla della comunicazione politico-istituzionale italiana, cresciuta a dismisura durante tutta la Seconda Repubblica e oltre. A contatto con la realtà drammatica della pandemia, non ha retto, è scoppiata” chiarisce Velardi. 

 

 

E il nuovo stil Draghi, al contrario, riuscirà a resistere, magari influenzando gli attori politici, economici e sociali – in altri termini, le classi dirigenti? Secondo Comin “si viene eletti dal popolo, ma si governa grazie alle élite. La disintermediazione le ha molto indebolite e deresponsabilizzate, ma Draghi potrebbe riportarle a un ruolo attivo, in termini di forma, ma anche di contenuto. Credo che i corpi intermedi ne beneficerebbero, ma serve anche volontà, intelligenza e serietà da parte loro per conservare la propria credibilità’’. 

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