L'intervista di Ranucci a Renzi: domande inutili e perniciose, risposte dolci e velenose

Giuliano Ferrara

Ah, Dubai. Ah, l’autogrill con una spia. Il leader di Italia viva e lo spasso del politico più impopolare che offre ottime lezioni ai piccoli inquisitori di Report

Quando c’era lei, caro Lei, venne Bernardo Jovene al Foglio sui contributi pubblici, uno scandalo della mutua, e sistemò per bene tutti i falsi percettori di utilità per giornali disutili, salvando alla grande la Scala o la Scaletta della stampa italiana. Gratitudine rinnovata, dopo lo strepitoso documentario suo, e appassionato, contro Di Pietro nel Mugello, capolavoro di culto della mia personalità. Divenni come un amico di “Report”, che guardavo poco perché detesto il giornalismo investigativo, anche quello del New Yorker, per dire. Mi piace il giornalismo analitico o tribunizio, sono fatto così. Poi venne Sigfrido, il poco wagneriano Ranucci, quello che ce l’aveva con gli americani in Iraq, e ho smesso di far parte del club, su istruzioni conformi della Cia.

 

Renzi me l’ero un po’ dimenticato, confesso. Si era incaponito nell’impresa di fottere Conte, che stava curando la mia salute e quella dei compatrioti, e gli era capitato l’affaruccio del Recovery, mica male. Mi sembrava che si fosse agitato troppo, sostenuto da un Pd in quello piuttosto miope, e pensavo che il riequilibrio avrebbe portato sfiga, sopra tutto a lui stesso ma non solo. Poi è arrivato Mario Draghi, una soluzione con i baffi, ma non per lui che si vantava a sproposito di averla perseguita. Così, sempre rispettosamente, perché mi è simpatico e lo giudicavo l’ultimo leader ammissibile, per il cui referendum riformista e altro mi ero pronunciato e che avevo votato, scarabocchiai qualche verità, per me, a lui non troppo amica, salvaguardando sempre l’idea che rompere con il renzismo e i renziani non era una buona idea per nessuno. Vabbè, direbbe Masneri.

 

Lunedì mattina ho visto che Arturo Parisi, un altro riformista serio e impegnato, rilanciava su Twitter un video di Renzi di 40 minuti. Ho avuto paura che fosse verboso, ma mi sono fidato dell’istinto. Anche perché la storia di videare l’intruso molesto, perfino nella forma del giornalista investigativo, non parliamo di un Chiambretti, non mi era estranea. Un mattino mi ero trovato il postino della procura di Milano sotto casa, su una sedia a dondolo, che aspettava di farmi la festa in clima di monetine o postmonetine (mi raccomando sempre il libro di Facci, leggetelo). Chiamai una troupe di Fininvest, che venne cortesemente, e quando scesi il Chiambretti si vide inchiambrettato da telecamere, che lo aggredirono alle spalle come nei migliori agguati indiani, con le quali camere lo prendevo allegramente per il sedere. Non ne fu contento, e la sera si rivide in una trasmissione intitolata appunto “Il Chiambretti Inchiambrettato”. Ma i giornali erano con lui, io ero più impopolare di Renzi, come mi è successo spesso nella vita. La cosa passò sotto silenzio stampa.

 

Spinto da curiosità, non mi sono staccato dal video di Twitter per un istante. Quaranta minuti di assoluta goduria. L’intervistatore era alla pari con il politico intervistato, che lo riprendeva tranquillo. Renzi risultava simpaticissimo, il piccolissimo inquisitore faceva figura di servo sciocco della libera informazione. 

 

Appena ricorreva ai soliti stilemi dell’investigativo, strano giro di soldi, che era andato a fare a Dubai, va bene c’è la legge ma andiamo alla sostanza, mi parli del rinascimento saudita, che ci faceva a Fiano Romano con una spia, veniva rimbeccato con grazia, astuzia, cortesia formale, e risultava vittima di controinsinuazioni legittime, al contrario delle insinuazioni sue. Uno spasso e una lectio magistralis in fatto di rapporti tra politica e giornalismo.

 

 

Si divertiva come il gatto con il topo, l’uomo più impopolare d’Italia, che è una medaglia non da poco. Le domande risultavano non solo inutili, ma perniciose per chi le faceva, e le risposte dolci e velenose come quei Babbi pieni di zucchero e cioccolata, buonissimi, che Mancini suole regalare al capo del partito scissionista del Pd, che credo sia un tipo goloso. Dopo il lungo assedio dei vent’anni di Berlusconi, quando sedevo al desco con i Previti, i Letta, i Biondi, i Contestabile e tanti altri meravigliosi commensali, e cercavo di far passare l’idea che Napolitano era meglio della Bonino, che con Casini e Fini era meglio non litigare, che Alfano era buono per l’avvocatura, che bisognava frustare il cavallo e eseguire la lettera della Bce facendo un sacco di belle riforme, propositi non sempre seguiti, diciamo, e da quando finì la battaglia per consentire al Cav. di fare in privato le festicciole che voleva, senza essere pedinato e inquisito nel segno del comune senso del pudore, ecco, è da allora che non frequento uomini politici, Renzi compreso. Avevo dimenticato quanto sono amabili, colti, spregiudicati, qualche volta perfino in eccesso. Ha pensato a riattivare la mia memoria un giornalista di cui non conosco il nome ma di cui ho visto le gesta minori su un formidabile social.

 

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.