Il ministro della Salute Roberto Speranza (Ansa)

Peggio della sfiducia

L'appello fatale. Centotrenta firmatari e una vittima: Roberto Speranza

Salvatore Merlo

Così il ministro della Salute viene fatto fuori dai suoi amici, con un manifesto che degrada in politica il suo lavoro

Guardati dai nemici ma soprattutto dagli amici, dice il saggio. Perché ieri l’appello in difesa di Roberto Speranza, firmato da attori di sinistra, registi di sinistra, scrittori di sinistra, giornalisti di sinistra, e dai segretari di Cgil, Cisl e Uil, ha definitivamente consegnato alla lotta politica e alla partigianeria, insomma allo spelacchiamento e al cortile starnazzante della politichetta, tutto ciò che il ministro della Salute aveva fatto in questo ultimo anno e mezzo di pandemia. Il lockdown e la prudenza, nei mesi terribili delle terapie intensive sature, con i ventilatori che venivano staccati agli anziani perché non ce n’erano abbastanza, non erano certo azioni politiche di sinistra. Il lockdown ad aprile del 2020 era semplicemente ciò che andava fatto. Ciò che poi tutto il mondo avrebbe fatto.

 

Solo una logica demenziale, solo un dibattito pubblico degradato in scambio di rutti su onda media e social media poteva fare della prudenza, delle mascherine e delle riaperture materia identitaria e simbolica, propellente da campagna elettorale. Ma questa è l’Italia. Questa è la sinistra che si specchia in Matteo Salvini. Ciò che infatti andava depoliticizzato con l’approssimarsi di una mozione di sfiducia promossa da Giorgia Meloni, tra le difficoltà e le ambiguità della Lega che critica Speranza ma sta pure al governo con lui, viene invece così trascinato in quel caotico imbuto che sembra diventato il nostro paese. Al punto che questa letterina, questo appello con Nadia Urbinati e Gad Lerner, sponsorizzato da LeU, diventa per il ministro più pericoloso della stessa mozione di sfiducia. E lo condanna.

 

“Noi stiamo con Roberto”, è l’incipit dell’appello, firmato da centotrenta personalità della cultura di sinistra. “Stiamo con Roberto che è stato e continua a essere un punto di riferimento decisivo” che si è battuto per “il diritto alla Salute come principio cardine della nostra società e della nostra civiltà e per il principio della massima precauzione e della massima cautela, quando altri ci raccontavano che era solo un’influenza e ci suggerivano di aprire, di correre, di non perdere tempo”. Tutto questo mentre si parla di riaperture, mentre il presidente del Consiglio annuncia una nuova fase dal 26 aprile. Insomma, assecondando la ben nota sindrome della appellite (tra i firmatari c’è non a caso la signora Urbinati con Tomaso Montanari), ecco che gli appellanti hanno prodotto uno di quei loro tipici manifesti da anni Settanta. La cui caratteristica ben nota è sempre la stessa. Tragicamente identica: quella di non curarsi mai delle conseguenze. Che nel caso di specie è mettere ancora di più alla berlina il loro “protetto”, Speranza, già accusato di essere l’uomo che impedisce le riaperture, il comunista che vuole desertificare l’economia del paese per imporre un modello alla venezuelana, in pratica il diafano Maduro (ma nato a Potenza) che cerca una via pandemica al socialismo.

 

Certo, bisogna ricordare che Speranza ci aveva già messo del suo con il contenuto del famosissimo libro pubblicato e non casualmente ritirato. Quel capolavoro intempestivo, edito da Feltrinelli ma introvabile in libreria, in cui, fra le tante perle, il ministro scriveva cose del tipo: “Sono nervoso al pensiero di qualsiasi aggregazione di più di due persone, mi turba persino vedere passare le automobili per strada”. Ma Draghi lo difendeva. Pure i ministri non trinariciuti. E persino a Salvini, in realtà, veniva complicato l’assalto all’arma bianca. Fino a ieri. Fino all’appello de sinistra. Ora davvero Speranza diventa un gracile e involontario punching ball. Grazie ai suoi amici. Che per corrergli in soccorso gli sono passati sopra.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.