La fine del cattivismo

Claudio Cerasa

Draghi non gliene fa passare una, Giorgetti lo fa sentire fuori posto, Meloni gli fa concorrenza. Salvini si è trasformato nel “Posaman” della politica  e sulle aperture offre a Letta una strada anti sciacalli

Il cattivismo non paga più, lo strepitismo non rende più, il trucismo non va più di moda, il caciarismo è finito fuori stagione, i migranti non sono più uno spauracchio, molti avversari sono diventati amici, l’Europa è meno maligna rispetto a qualche anno fa e a due mesi dalla nascita del governo Draghi succede così che uno degli azionisti di maggioranza di questo esecutivo, uno dei più importanti, si trovi in una condizione non troppo diversa da quella messa in scena in una fantastica gag dal comico Pasquale Petrolo, detto Lillo, in una esilarante serie tv distribuita in questi giorni da Amazon Prime (“Lol: chi ride è fuori”). La gag è quella in cui Lillo interpreta un improbabile supereroe di nome “Posaman” il cui unico potere coincide con la capacità di cimentarsi in pose diverse ogni volta che viene detto il suo nome. Sotto questa prospettiva, Salvini, a oggi, è senz’altro il Posaman della politica italiana per una ragione che emerge in modo plastico in ogni occasione in cui, di fronte alle parole di Mario Draghi, il leader della Lega appare sempre di più agli occhi dei propri elettori come un supereroe senza poteri, capace cioè di mostrare solo la sua posa da supereroe.

 

Succede così che un giorno Salvini dica che l’euro non è irreversibile e che il giorno dopo Draghi dica che invece l’euro è irreversibile. Succede così che un giorno Salvini dica che sia un dovere non tenere il paese chiuso oltre Pasqua e che il giorno dopo Draghi dica invece che l’Italia dovrà essere purtroppo chiusa anche dopo la Pasqua. Succede così che un giorno Salvini dica che non sia possibile tenere chiusa l’Italia anche ad aprile e che il giorno dopo invece Draghi dica che l’andamento dei contagi impone di tenerla chiusa ancora per un po’ ad aprile. Succede così che un giorno Salvini dica che il ministro Roberto Speranza chiudendo il paese ha messo in atto nei confronti degli italiani un “sequestro di persona”, che detto da Salvini vale doppio, e succede poi che il giorno dopo Mario Draghi dica in conferenza che Speranza lo ha voluto lui e che non c’è ragione per criticarlo.

 

Lo schema è ormai collaudato, il disorientamento del leader leghista è ormai acclarato, la differenza tra una Lega che al governo si trova a suo agio e una Lega che al governo si trova a disagio è ormai alla luce del sole, la concorrenza con il partito di Giorgia Meloni che sorprendentemente ha scelto di ingaggiare un duello con la Lega non all’insegna del chi urla di più ma all’insegna del chi pesa di più è diventato un problema non da poco per l’ex ministro dell’Interno. Ma la verità è che nella dialettica che esiste tra Mr. Posaman e Mr. Whatever it takes vi è un dato interessante che merita di essere analizzato e che riguarda la presenza sul campo di un fenomeno diverso dal tradizionale scontro politico.

 

Quando Draghi risponde a Salvini non lo fa per contrapporsi esplicitamente al leader della Lega e non lo fa come vorrebbe il Pd per iniziare a marcare una distanza esplicita dalla Lega (Enrico Letta, segretario del Pd, ieri ha incontrato Matteo Salvini e dalla discussione tra i due sembra essere emerso con chiarezza che il vero terreno di confronto tra il Pd e la Lega sarà costituito dalla capacità dei due partiti di dettare l’agenda sul prossimo decreto imprese). Draghi lo fa evidentemente con un approccio diverso, che ha un effetto politico solo involontario.

 

Il presidente del Consiglio agisce con lo spirito di chi cerca di depoliticizzare i conflitti, ma quando i conflitti vengono depoliticizzati il risultato è che per il pubblico è più semplice capire da che parte sta il buon senso e da che parte sta il non senso.

 

Di fronte a Draghi, il Salvini che in modo tanto astuto quanto maramaldo prova a intestarsi un tema popolare e trasversale come quello delle aperture cercando di far apparire le chiusure come se fossero una scelta dettata non dalla curva epidemiologica ma dai capricci della sinistra non fa una buona figura e appare ogni giorno sempre più come un pugile suonato. Ma il tema del come riaprire, quando riaprire e dove riaprire è un tema centrale a cui il governo dovrà dare risposte meno evasive rispetto a quelle date due giorni fa da Draghi in conferenza stampa. E se il Pd vorrà provare a essere con i fatti e non con le chiacchiere il partito centrale del governo dovrà trovare un modo per far sì che l’agenda delle riaperture sia scandita un po’ più dalla politica del realismo e un po’ meno dalla politica degli sciacalli. Di Posaman, caro Letta, uno ne basta e avanza.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.