(foto Ansa)

Caro Calenda, caro Salvini: la politica è anche ruspa e fioretto

Giuliano Ferrara

Il disorientamento dell'Infiltrato al governo e le bizze del leader di Azione a Roma ci ricordano che la politica non è un affare per pedanti

La politica non è per i pedanti, ma ha una sua logica. Salvini è diventato un capo con il risentimento, la frustrazione, la rabbia degli esclusi o presunti tali dalla costruzione dell’euro e dell’Europa sovranazionale. Calenda ha acquisito un suo spazio come uomo di governo capace di idee, di applicazione e studio, franco nel linguaggio ma pur sempre parte di un’élite che ha i suoi natali, il suo cursus honorum, i suoi codici. Siamo tutti spiazzati, credo, dal loro modo di farsi spiazzare dagli avvenimenti. Dalla loro tendenza a non rispettare la logica ferrea di un posizionamento e di una funzione politica in un grande paese con antiche istituzioni e un popolo molto più astuto e cinico di quanto non lo si rappresenti cuore in mano. 

Salvini ha sbattuto la faccia, questo è indubbio e dovrebbe averlo capito, contro il muro dell’establishment. Dopo essere stato scaricato e emarginato nel suo momento culminante della richiesta di pieni poteri elettorali, gli sono capitate due cose rilevanti. Prima, con una maggioranza anomala di cui non faceva parte e che combatteva senza grande profitto, era rimasto fuori da tutti i giochi a saltabeccare in tv di qua e di là; poi, adesso, con una maggioranza e un governo che lo comprendono, dopo la sua integrale e brusca trasfigurazione in altro da quel che era stato, ma all’insegna nientemeno che di Draghi. Per uno che ballonzolava in calzoncini, spiritoseggiava su Soros con venature antisemite, per uno che sul “basta euro” aveva costruito improbabili fortune popolaresche o populiste, in sintonia con l’uomo del malaffare demagogico americano, Trump, per uno come lui, Nutella xenofobia razzismo e il resto, quello che gli è capitato per merito di Giorgetti e in virtù della crisi della ex maggioranza Pd più grillini più altri, è enorme, madornale. 

 

Salvini questo lo sa ma non riesce a districarsi nella logica della sua stessa nuova posizione politica. Vorrebbe la botte piena e la moglie ubriaca o il burro e i soldi del burro, come dicono i francesi. Che debba mantenere una sfumatura del suo vecchio populismo un po’ caciottaro, vabbè, ma non può ragionevolmente pensare di cavarsi d’impiccio dicendo, dall’interno della maggioranza di unità guidata da Draghi, che la campagna vaccinale è morta in Europa, e la soluzione è India o Sputnik, così, perché lo dice lui, che tra l’altro se si parli di Russia e Putin è un indiziato grave di collusione a prescindere. Non è il trotto né il galoppo né l’ambio di un cavallo di razza, questo modo di fare, a strappi, sacrificando il sé di oggi al suo Ego profondo di appena ieri, è al massimo lo scalciare di un asino. La logica della politica, a parte portare gli occhiali e smetterla con gli eccessi gastroalimentari della Bestia, esige qualcosa. In una data situazione non puoi comportarti, pena la perdita totale di credibilità, come nella situazione opposta, nella costellazione precedente. 
Calenda ha un problema centrale, non essere il riporto di un’esperienza solo tecnico-politica, il riferimento di secondo grado di gente che lavora dal di dentro del potere economico, finanziario, intellettuale e accademico. 

Deve proporsi, viste le sue ambizioni, come qualcuno che ha un compito nazionale e popolare da assolvere, come un uomo delle istituzioni legato alla loro legittimazione popolare, come uno che non si limita a disseminare il terreno di idee, di numeri, ipotesi, che non sta nel recinto delle trovate un po’ accademiche e che invece è affidabile e leale verso sé stesso, il suo progetto politico, e verso gli altri, con un qualche senso di una comunità cui appartenere, possibilmente robusta, non per principio minoritaria, con tutto quello che di poco individualista e di collettivo questo significa. La candidatura a sindaco di Roma era perfetta, per lui che in linea teorica saprebbe amministrare, riformare, trasformare e che in linea di massima vale il voto e la mobilitazione di tanta gente assennata e che ha cura di una grande città un po’ alla deriva da troppi anni. In più Roma è un incarico simbolico, di prestigio internazionale e di grande sostanza nazionale, e i precedenti di Rutelli e Veltroni dimostrano che è possibile uscirne tutt’altro che con le ossa rotte, al contrario, con una forza e un’autonomia difficili da costruirsi altrove. Ma la logica politica dice che al Campidoglio non ci puoi arrivare solo soletto con le tue idee, le tue bizze e idiosincrasie, i tuoi incontri, i tuoi rancori, le tue soluzioni, devi costruire una coalizione, non puoi sdegnare quelli che ti voteranno, non ti è lecito, se l’ambizione è vera e seria, pretendere come una guarentigia di casta ciò che ti devi conquistare con le alleanze e i compromessi, oltre che con un duro lavoro di ruspa e di fioretto. 

 

Ecco, questi spiazzamenti rispetto all’obiettivo, al suo significato politico, rispetto ai modi del discorso e della prassi, sono complicati da capire. Si può concedere qualcosa alle proprie pulsioni profonde, si può capire che la constituency di partenza non la si possa liquidare con un’alzata di spalle, se hai tentato senza successo la rivolta dei burini o se hai cominciato la scalata con Montezemolo e Monti un tuo tributo al passato lo devi mettere nel conto, ma non così, non in modo così irrazionale e illogico. 

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.