Il caos al Nazareno

Le divisioni dei dem

David Allegranti

Le squadre in campo si vedono, ma dove sono i nuovi Renzi e Bersani? 

Finché era in piedi il Conte 2, con Pd e Cinque stelle al governo e Giuseppe Conte non ancora incoronato capo-grillino, il partito di Nicola Zingaretti procedeva a colpi di unanimità provvisoria. Adesso che c’è Mario Draghi, lo scenario è cambiato. 

 
La segreteria nazionale prosegue nel dialogo con i Cinque stelle e chiede – dove possibile – un’alleanza in vista delle amministrative, che si potrebbero tenere a ottobre. Ieri, intanto, il Pd regionale del Lazio ha dato il via libera all’allargamento della maggioranza ai grillini in Regione. Su 55 componenti aventi diritto al voto, la direzione regionale del Pd Lazio ha approvato con un voto contrario e sei astenuti (tutti esponenti di Base Riformista e dell’area che fa riferimento a Matteo Orfini)  un ordine del giorno finalizzato alla costruzione di “un nuovo patto di maggioranza alla Regione Lazio fra le attuali forze politiche che sostengono la Giunta e il M5s”, dice Bruno Astorre, segretario regionale del Pd Lazio. Preludio di quel che accadrà alle elezioni comunali? Zingaretti sa che a Roma il Pd non ha assolutamente intenzione di allearsi con Virginia Raggi, quindi lo precisa subito: “La possibile alleanza con il Movimento 5 stelle nel Lazio non ha ricadute sui Comuni che voteranno. Ogni Comune deciderà le migliori alleanze”. 

 
Dall’altra parte c’è invece lo smarrimento dei riformisti, come Base Riformista, la corrente di Lorenzo Guerini e Luca Lotti, che invocano riflessioni congressuali e vogliono tenersi alla larga dal “populismo sano” di Conte. Per non parlare dell’intesa nel Lazio, fortemente criticata ieri alla direzione regionale del Pd. “Non siamo d’accordo su questa linea che non aiuta a vincere né a dare un’alleanza organica che possa permettere di vincere nei comuni e a livello nazionale – dice alla Dire la deputata Patrizia Prestipino, esponente di  Base Riformista –  Soprattutto partendo dal Lazio, che è la regione guidata dal segretario nazionale e dove c’è Roma, un laboratorio importante, come hanno dimostrato le esperienze di Rutelli e Veltroni, ed è per questo che non può essere chiuso in un recinto Pd-5S. Se qui si fa un laboratorio a perdere che futuro ci sarà a livello nazionale? Saremmo felici di essere smentititi dai fatti”.

  
I riformisti non sono tuttavia gli unici ad avere qualche perplessità, diciamo, sulla linea della segreteria. Anche Gianni Cuperlo dice in un intervento su Domani, che c’è bisogno di un congresso del Pd. E Pierluigi Castagnetti, versione osservatore di lusso, spiega  su Twitter: “Osservo dalla periferia e con qualche sofferenza la crisi del Pd. Capisco la resistenza di Nicola Zingaretti vs un congresso straordinario. Ma a fronte di sondaggi al 14 per cento qualcosa di straordinario bisognerà pure inventarsi. E anche subito”. Insomma, congresso o no, l’effetto Draghi si è abbattuto non solo sul centrodestra, dove Lega e Forza Italia sono andate al governo senza Fratelli d’Italia, rompendo seppur provvisoriamente la coalizione, ma pure sul Pd. La discussione è così accesa, ormai, che sembra di essere tornati al tempo del duello fra Renzi e Bersani per la leadership del Pd. Solo che mancano, oggi, sia un Renzi sia un Bersani.  

 

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.