Nicola Zingaretti (foto LaPresse)

Nuovi mandarini e vecchie filastrocche

Giuliano Ferrara

Studiare i leader politici senza albagìa, prima di dire che bisogna cambiare il segretario del Pd. La mediocrità, come offuscamento della personalità politica, ha portato Zingaretti a fare le scelte giuste nel momento giusto

A parte che mi tocca apprezzare alla follia un editoriale di Marco Travaglio che scortica i retroscenisti e altri perditempo (è vero che politics makes strange bedfellows), ora questa storia che bisogna cambiare Nicola Zingaretti alla testa del Partito democratico, secondo una battuta del sindaco di Bergamo Giorgio Gori, mi sa di fesso, di fiacco, di bolso. Zingaretti è il contrario di tutto quello che immagino importante in un leader politico: sono per la visione, la strategia, il decisionismo personale, il conflitto intriso di ironia e sarcasmo, sono per la gravitas ma non insensibile alla leggerezza pop, adoro l’esperienza solo come esercizio spericolato del dilettantismo, mi piacciono l’azzardo morale, il rischio, la retorica infallibile, la solitudine magica del vero potere, e sono tutte cose di cui Zingaretti è chiaramente sprovvisto.

 

La sua cifra è notoriamente la modestia, che a me va bene solo come dissimulazione, e che distinguo dall’umiltà come forma di realismo, e la sua chiave è una specie di anonimato politico, per quanto piazzato al vertice di una macchina di governo e di consenso organizzato, insomma il contrario della pulsione e del desiderio di titanismo che affliggono benevolmente una generazione come la mia, segnata dalla storia e dalla storiografia sebbene in assenza di guerre guerreggiate, solo surrogati. In astratto, che ci sia o non ci sia uno Zingaretti, per me fa lo stesso. Lo stesso varrebbe per il Superbisconte, che certo non è nemmeno lui il mio tipo o weberianamente il mio Idealtypus. Per di più l’uomo del Pd ha un parente ingombrante in immagine, e non posso scordare che David Parenzo a una celebrazione in comunità dell’indipendenza israeliana, al Portico d’Ottavia, lo chiamò sul palco festeggiandolo come Luca Zingaretti, scherzi della media-com.

 

Eppure una cosa che i retroscenisti e gli analisti politici dovrebbero imparare è l’arte di riconoscere nuovi modelli di politicità, adeguati evidentemente ai tempi, e cercare di ripercorrerne genealogia e morfologia con strumenti che non siano le vecchie classificazioni. C’era un tempo in cui più o meno, la cultura politologica aiutando, si riusciva a capire fenomeni come Craxi, Pomicino, Andreotti, Moro, Gava, Forlani, per non dire di De Gasperi o Togliatti o Fanfani o Amendola, si riusciva a offrire giudizi e previsioni individualizzate al passo con i fatti. Da dove uscivano le personalità dell’Italia dei partiti, che poi era l’Italia repubblicana, prodotta dalla guerra mondiale, dalla Liberazione, dalla guerra civile. Come si era formato il personale politico cattolico, con le sue vecchie radici popolari riformulate e modernizzate nell’apparato ecclesiastico e post ecclesiastico dell’interclassismo democristiano? Liberali e radicali delle varie genie da dove venivano, che senso avevano, che cosa potevano fare? E i comunisti, i socialisti, i saragattiani di Palazzo Barberini, questo coacervo di ideologia e di fedeltà o di infedeltà alla matrice comune del movimento operaio, come agivano, come operavano, a quali regole e statuti rispondevano nel dipanarsi delle cose reali che accadono?

 

Queste domande dovrebbero essere riproposte e dovrebbero, le risposte cercate con un minimo di fatica e di talento, aiutarci a capire qualcosa di plastico e di preciso, da mettere per così dire in memoria, oltre lo schema competenza/incompetenza, o quello democrazia rappresentativa/democrazia diretta-e-vaffanculista. Solo un imbecille pigro può non domandarsi da dove venga la trasmutazione di Conte da vice dei vice a capo dei capi nell’emergenza, come sia stato possibile che uno staff di improbabili si sia rivelato all’altezza di una situazione inaudita, da quali modelli il praticonismo umilmente piacione di un avvocato del popolo rovesciato dai fatti come un calzino bagnato abbia sortito il prodigio della trasformazione delle zucche in carrozze, qualcosa di strano e di fiabesco, perfino. Nonostante le obiezioni crude esposte prima, anche da Zingaretti uno ha da attendersi quella speciale protezione politica che solo la mediocrità in certi casi può offrire, e per mediocrità non intendo l’assenza di doti personali o intellettuali, ma appunto quello strano offuscamento della personalità politica che ha portato il segretario del Pd, contestato di malagrazia, a fare tutte le scelte giuste nel momento giusto da quando una non esaltante campagna delle primarie lo aveva scelto come curatore fallimentare di un partito esausto. Studiare i nuovi mandarini senza albagìa dovrebbe essere il compito del momento, invece di ripetere ogni giorno le vecchie filastrocche. 

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.