Virginia Raggi a casa di Alessandro Di Battista e alla Farnesina con Di Maio

Il responsabile, l'irresponsabile e l'amica di tutti. Il M5s in due scatti

Carmelo Caruso

Virginia Raggi, in cerca di riconferma, si fa immortalare alla Farnesina insieme a Di Maio e poi a casa di Di Battista. Immagini uniche che raccontano lo stato del Movimento

 

Roma. Ogni loro postura ne anticipa il programma e ne rivela gli azzardi e c’è davvero tutto il loro mondo come volontà e rappresentazione concentrato in queste immagini che raccontano il M5s alla fine del loro racconto. Sono dunque foto tampone, documenti per epidemiologi della politica, i due formidabili scatti che Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista, e Virginia Raggi, rispettivamente calati nella parte del responsabile, dell’irresponsabile e della amica di tutti, hanno voluto diffondere per prepararci e prepararsi alla loro fase tre che è l’apertura dei confini, l’ora delle possibilità, l’aria fresca lontana da casa, la fuga dalle (piatta)forme.

  

Visualizza questo post su Instagram

Stasera ho rivisto Alessandro e Sara e mi hanno fatto una bellissima sorpresa. Tanti auguri! @aledibattista @sahra_lahouasnia

Un post condiviso da Virginia Raggi (@virginiaraggim5s) in data:

  

Per celebrare l’evento, Di Maio ha riannodato la cravatta che aveva riposto nella teca (è già reliquia), Di Battista ha invece tagliato i capelli che sono sempre il prolungamento dei suoi pensieri confusi, mentre la Raggi è tornata l’assistente di studio che era e che oggi afferra parole di sapienza dal ministro degli Esteri, uomo che ha ormai girato il pianeta come Totò l’Italia: “Ho fatto il militare a Pechino”. E infatti è la Raggi quello che il filosofo Roland Barthes, nella sua “La camera chiara”, chiamerebbe il punctum, il particolare comune di entrambe le fotografie, il ponte che collega non due geografie, ma due fortune, i due disoccupati di talento che si detestano accarezzandosi, “Luigi è il mio più caro amico”; “Ascolto sempre le parole di Alessandro”.

 

Li unisce questa sindaca e li divide perché, anche nel modo in cui la difendono, i codici sono diversi. Scomposto è quello di Di Battista (“C’è un tentativo dei poteri forti di buttarla giù”) e ministeriale quello di Di Maio (“Virginia avrà sempre il sostegno del M5s”). Non le ha restituito coraggio né l’uno né l’altro, ma l’emergenza, la defezione storica di Milano, capitale morale (?), la pandemia che ha risparmiato Roma, città quasi aperta in questa Italia chiusa. Mai Roma era sembrata tanto normale come nell’eccezionalità.

 

Oggi la Raggi parla quindi di riconferma, insegue la ricandidatura, pretende il bis che fino a pochi mesi fa ne avrebbe fatto un caso per Oliver Sacks, un disturbo e quindi materia da psicanalisi e non di cronaca politica come è diventata. A lodare la sindacatura più stramba di tutti i tempi, e lo dicono i romani che la sua è la peggiore, si è fatto avanti Paolo Ferrara, consigliere capitolino, che ha spacciato la manutenzione delle strade romane come fosse clorochina di buon governo: “Virginia Raggi ha fatto più strade degli antichi romani. Ho preso carta e penna e fatto un calcolo. Più di un milione di metri quadrati asfaltati”. Anche questa ultima infezione della mente andrebbe forse studiata in laboratorio e sottoposta ai professori del comitato scientifico anziché al Pd che ha dovuto bocciare l’idea attraverso interviste e comunicati nientemeno che del segretario Nicola Zingaretti: “Non appoggeremo la Raggi. Serve un cantiere per ripensare la capitale del Paese”. Ma non vogliono ricandidarla neppure Paola Taverna, che studia da capo politico, e Roberta Lombardi, questa volta della stessa opinione della Taverna, convinta che non si dovrebbe derogare ai due mandati e che si dovrebbe smettere di “distruggere”. Si riferisce non solo alla Raggi, che ritiene esperta di demolizioni, ma a Di Battista, l’inoccupato che un altro campione del M5s, “l’allunato” Carlo Sibilia (oggi è sottosegretario all’Interno) ha proposto di impiegare per curare la sua inquietudine da girovago a pagamento: “Lo vedrei bene come sindaco di Roma”. Ed è proprio questa la ragione che rende uniche queste immagini. L’obiettivo li mette a fuoco, li illumina, sono cartelle cliniche per ciascuno di loro e di questo smandrappato movimento.

  

   

Guardate la Raggi seduta sui divani di pelle della Farnesina e confrontatela con la Raggi seduta a carponi a casa Di Battista. Quanto è lontana la sindaca che si rifugiava sui tetti del Campidoglio, quella che un bravissimo fotografo aveva catturato smarrita e circondata da birboni, da questa sindaca fotografata dal paparazzo governativo sotto la bandiera italiana e che incede sicura in direzione di Di Maio? In udienza da Di Maio, alla Farnesina, si rimpicciolisce, si sporge e si perde fra marmi e spazi vasti. In visita, a casa Di Battista, si ingigantisce, si sdraia e si confida con la compagna Sahara che il pancione non può che addolcire e intenerire. A uno (Di Maio) chiede di negoziare con il Pd, di piegarlo ancora una volta come è accaduto con Giuseppe Conte. All’altro (Di Battista) chiede di coprirla all’interno del M5s, già sicura che non è lui che vuole sostituirla e che nessuno ha più interesse di lui a ricandidarla. La fotografia stessa è una cartolina di domestica spensieratezza, un telegramma veloce che Di Battista ha spedito agli attivisti su Instagram: “Una serata speciale con un’amica speciale e coraggiosa!” ha scritto sui social. Sul tappeto di casa, senza scarpe e con il figlio che è distante dai discorsi dei “grandi”, Di Battista abbandona la sua geopolitica infiammabile, scaccia le responsabilità che ha caricato tutte sulle spalle di Di Maio, uno che ha avuto un colpo di genio quando ha deciso di fare un po’ alla Di Battista, dimettersi per rimettersi. E sarà per via della luce, calda, di quella lampada di gusto e di design che illumina la stanza e il suo spirito, ma mai come in questa fotografia, Di Battista è più vero del vero, un ragazzotto rimasto alle letture di generazione.

  

Spostate gli occhi su Di Maio. Anche senza più cariche politiche, la sua estetica è sempre più politica. Indossa il vestito come un’armatura ed è rigido e severo persino quando ascolta la sua sindaca che riceve come fosse il capo di uno stato estero. Pure il sorriso è adesso una smorfia diplomatica e ogni sua frase non è più una dichiarazione, ma un appello alle nazioni. Senza più l’assistenza civica di Beppe Grillo, senza più i cavi di Davide Casaleggio ognuno di loro si trascina una storia che un tempo sarebbe stata minuscola e che oggi è invece l’album (fotografico) della nazione.