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Un governo per rifare l'Italia

Michele Salvati

Va bene pensare alle mosse per uscire dall’emergenza Covid e dalla grande crisi, ma bisogna spingere lo sguardo più in là. Le riforme e un esecutivo di unità nazionale come chiave per invertire la rotta di un declino ormai ventennale (solo un sogno?)

I lemming sono quei piccoli roditori che si buttano in mare dalle scogliere della Norvegia quando le risorse alimentari sono insufficienti. Una notizia falsa, come etologi e naturalisti ci insegnano, ma che consente di dare un po’ di colore a una preoccupazione vera: ci stiamo dirigendo anche noi italiani verso il precipizio di una grave crisi politico-economica con la stessa incoscienza di una massa di lemming? Una via d’uscita diversa da un suicidio collettivo forse ci sarebbe – un “vero” governo di unità nazionale – ma i capi che guidano le diverse schiere di lemming (fuor di metafora, i diversi partiti) non sembrano volerla seguire: perché? E’ questo il problema cui vorrei dedicare una riflessione tramite il piccolo “esperimento mentale” che sviluppo nella seconda parte di quest’articolo. Sono consapevole che per ora mancano le condizioni per trasformare l’esperimento mentale in un esperimento vero, in una proposta realistica per l’immediato futuro. E allora? Allora l’articolo è inconcludente: descrive una via d’uscita dalla crisi che a mio parere sarebbe idonea a invertire la fase di declino in cui il paese si è avviato da più di vent’anni, ma che sicuramente non verrà percorsa in un futuro prevedibile. Nel descriverla, però, spero di dare un’immagine della crisi politico-economica in cui ci troviamo più completa e drammatica di quelle che ci offrono gran parte delle analisi correnti: il declino è destinato a durare sinché non si sarà formata una classe dirigente, e soprattutto una classe politica, all’altezza delle sfide che il nostro paese deve affrontare.

 

(E’ omessa la parte centrale dell’articolo che descrive: (a) come è stata affrontata la crisi sanitaria e quella economico-finanziaria, esemplificando le disfunzioni politiche, amministrative e istituzionali che ostacolano in Italia una democrazia capace di decidere; (b) le misure adottate dall’Unione europea e dalla Bce e i problemi aperti nelle trattative che ad esse hanno condotto e ad esse seguiranno. L’intero articolo sarà disponibile da domani sul link www.perfondazione.eu).

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I casi prima descritti bastano a dare un’idea delle carenze profonde che la risposta alla crisi ha rivelato nel sistema decisionale della nostra democrazia. Troppi sembrano convinti, anche tra colleghi economisti che stimo, che i nostri problemi appartengono al novero di quelli che si risolvono buttandogli un sacco di soldi addosso. Senza negare che è importante sostenere in continuazione l’attività economica perché è difficile qualsiasi riforma se nel frattempo l’economia langue, i nostri principali problemi, quelli responsabili del nostro declino, sono dovuti in gran parte al cattivo funzionamento del nostro sistema politico, istituzionale e amministrativo, le cui radici risalgono a molto addietro nel tempo. Questo li rende molto ardui da affrontare – il fallimento di quarant’anni di tentativi di riforma costituzionale è lì a dimostrarlo – e certamente impossibili da risolvere nel corso di una situazione di emergenza. Un’emergenza, però, se non viene sprecata in polemiche sterili tra le forze politiche interne o in recriminazioni astiose verso altri paesi europei, potrebbe dare origine a un mutamento di opinione che coinvolga gran parte dei nostri concittadini e li porti a riflettere sui guasti della nostra democrazia e delle sue istituzioni. E di conseguenza indurli ad accettare un programma di lungo periodo che, mutuando il modo impressionistico con il quale vengono chiamate ora le leggi di riforma, potrebbe essere intitolato “Rifare insieme l’Italia”, per ricordare l’appello risorgimentale: “Qui si fa l’Italia o si muore”. Questo programma dovrebbe partire da una profonda riforma costituzionale e poi articolarsi in una serie di cantieri che potrebbero operare già nel corso di questa legislatura e soprattutto della prossima.

 


I principali problemi, quelli responsabili del nostro declino, sono dovuti in gran parte al cattivo funzionamento del nostro sistema politico, istituzionale e amministrativo. Servirebbe un governo composto dalle migliori competenze disponibili nel nostro paese, sia nel mondo politico che al di fuori di esso


 

Facciamo allora un piccolo esperimento mentale, oltre i confini della stessa fantapolitica. La via maestra per “rifare l’Italia” potrebbe essere un governo di unità nazionale, guidato da un presidente del Consiglio il cui prestigio nazionale e internazionale fosse molto alto, composto dalle migliori competenze disponibili nel nostro paese, sia nel mondo politico che al di fuori di esso. Il compito di questo governo sarebbe duplice: gestire l’emergenza sanitaria ed economico-sociale nel contesto dell’attuale Unione europea e assicurarsi che il processo di riforma costituzionale si svolga nei tempi minimi previsti dalla Costituzione: tre anni, quanti intercorrono fra oggi e le prossime elezioni politiche, bastano e avanzano. L’impegno che i partiti dovrebbero assumere è quello di sostenere il governo senza defezioni sino alla fine della legislatura, a differenza di quanto avvenne per il governo Monti; identificare un candidato comune per il ruolo di presidente della Repubblica, la cui elezione è prevista fra poco più di un anno e mezzo; trovare un accordo sulle procedure (Commissione Bicamerale?) e sugli indirizzi fondamentali della riforma, includendo in essa i principi base della legge elettorale, in modo da rendere molto difficili continui cambiamenti motivati da presunte e occasionali convenienze dei governi in carica.

 

Dopo le elezioni, se lo spirito che ha sostenuto il governo di unità nazionale e la riforma della Costituzione avrà indotto a un avvicinamento nelle posizioni dei partiti, la politica potrebbe riprendere il suo corso sul nuovo binario costituzionale e dedicarsi ai cantieri che dovranno essere istallati per “rifare l’Italia”: pubblica amministrazione, scuola, regioni, giustizia, mezzogiorno, cui dovrà ovviamente aggiungersi il rilancio dell’economia e dell’occupazione e la lotta contro la povertà. Se, per fissare le idee, il nucleo della riforma costituzionale del governo seguirà un modello simile a quello semi-presidenziale francese, alcuni degli ostacoli che oggi si frappongono a una democrazia, liberale sì, ma capace di decidere, dovrebbero essere risolti dalla riforma stessa. Altri no, e non rimane che augurare che uno spirito pentecostale (“Spiritus Sanctus descendat super vos et maneat semper”) aleggi a lungo sul sistema politico italiano. Se non sempre, quanto basta per fare le riforme necessarie. Al di là dell’augurio, la riforma costituzionale ed elettorale introdurrebbe una tale discontinuità nel sistema e un velo d’ignoranza così spesso sugli esiti di future elezioni politiche da rendere meno rilevanti i calcoli sulla base dei quali i partiti si muovono oggi, con l’attuale Costituzione e una legge elettorale quasi proporzionale.

 

Che la realizzazione di un disegno come quello abbozzato sia auspicabile, sia per il nostro paese, sia per rovesciare i (pre)giudizi dominanti in Europa, nelle cancellerie di tutto il mondo e soprattutto nei mercati, non avrei dubbi. Il disegno è auspicabile anzitutto per l’Italia, quale che sia il suo destino e quello dell’Europa. Se le cause del declino sono quelle prima accennate e dunque cause essenzialmente interne, una democrazia più capace di decidere non può che collocare l’Italia in una situazione migliore di quella odierna per affrontare i difficili problemi che si prospettano per il futuro e di cui il coronavirus non è che l’antesignano: si pensi soltanto all’emergenza dei cambiamenti climatici. Si tratterebbe di una democrazia liberale, in cui i diritti individuali e le garanzie costituzionali sono rispettati e nella quale una vigorosa dialettica tra destra e sinistra consente di rappresentare gli interessi e le aspirazioni dei ceti più svantaggiati della società, un requisito indispensabile alla sostenibilità nel tempo degli stessi caratteri liberali della democrazia. La sottolineatura dell’efficienza e della capacità e rapidità decisionale del sistema politico/istituzionale/amministrativo non deve far temere una deriva autoritaria alla Orbán, di cui, per ora, in Italia, mancano gran parte dei presupposti. Anzi, si tratta di una via democratico-liberale alternativa a quella di Orbán.

 

Ugualmente non ci sono dubbi che lo stesso disegno sia auspicabile per i suoi riflessi internazionali, molto importanti in un contesto europeo e di globalizzazione. L’attenuazione dei (pre)giudizi nei confronti del nostro paese e dunque il suo rafforzamento in un contesto europeo e internazionale sarebbero una conseguenza della convinzione crescente che l’Italia ha cambiato rotta. Questa convinzione potrebbe già maturare in tempi brevi, in seguito alla constatazione che finalmente esiste per il resto di questa legislatura un governo adeguato, forte e competente. E potrebbe consolidarsi se la riforma costituzionale garantisce che governi “adeguati”, sia pure con diverse accentuazioni politiche, saranno una caratteristica durevole del nostro paese. E se poi questi governi gestiranno bene l’economia e cominceranno a incidere sull’inefficienza amministrativa e la confusione istituzionale che attualmente caratterizza il nostro sistema decisionale pubblico, lentamente gli attuali (pre)giudizi potrebbero affievolirsi.

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Non credo valga la pena di attardarsi sul nostro esperimento mentale. Ne ho descritto i principali caratteri in modo sufficientemente dettagliato perché di governi di unità nazionale circolano diverse versioni, del tutto inadatte al proposito di “rifare l’Italia”. Alcune sono semplici espedienti per sbarazzarsi il più rapidamente possibile di Conte e del governo rosso-verde: ma un governo di “unità nazionale” (?) con dentro alcune delle forze politiche attualmente all’opposizione – insomma, un piccolo ribaltone, nell’improbabile ipotesi che il presidente della Repubblica lo consenta – ne lascerebbe fuori altre che poi potrebbero fomentare l’insoddisfazione degli elettori contro il governo, secondo lo schema che ha portato al successo i partiti populisti negli anni scorsi: non insegna nulla l’esperienza successiva al governo Monti? Anche altre versioni, meglio intenzionate, non prendono in considerazione la riforma costituzionale, che è invece la cartina di tornasole dell’intero disegno, il modo in cui le diverse forze politiche presenti in Parlamento si impegnano sui principi di fondo in base ai quali l’Italia dev’essere rifatta. Senza escludere che versioni meno difficili e impegnative possano essere trovate, questa mi sembra l’unica che risponde ai problemi che da almeno quarant’anni sono sul tappeto, anche prima che iniziassero i fallimentari tentativi di riforma costituzionale. Ma è proprio l’ambizione e la difficoltà del progetto che mi rendono pessimista sulle sue possibilità di attuazione.

 

Ammettiamo pure che in tutte le forze politiche che ora siedono in Parlamento esista una preoccupazione sincera che l’Italia si trovi di fronte a una giuntura critica e corra il rischio di abbandonare o essere espulsa dall’Europa, oppure di restarci ma in condizioni di crescente marginalità politica e asfissia economica. Ma dove trovare una persona cui i partiti affidino il compito di capo del governo di unità nazionale? Ai tempi della crisi d’Algeria, in Francia quella persona esisteva e aveva chiari in mente i principi costituzionali che avrebbero consentito al suo paese di cambiare rotta. C’era e disponeva di una immensa popolarità, proprio per il suo passato politico e militare e per l’insofferenza nei confronti delle beghe dei partiti che l’avevano indotta a un ritiro sdegnoso dalla politica. Insofferenza che gran parte della popolazione condivideva. Oggi in Italia una personalità ad essa paragonabile non c’è: abbiamo ottimi “tecnici”, alcuni con notevoli capacità organizzative e buone esperienze in incarichi politici, ma nessun vero politico dotato di una fonte autonoma di consenso. Si tratterebbe allora di un governo tecnico? Non esistono governi tecnici: anche quello di Monti era un governo politico, basato su una maggioranza in Parlamento, finché ha retto. E lo sarebbe quello prima abbozzato, anche se il presidente del Consiglio designato non fosse un capo di partito o disponesse di grande popolarità personale: neppure Prodi ne disponeva ai tempi dell’Ulivo, che era un’alleanza parlamentare composta da due partiti divisi da un trattino, ognuno con il suo segretario. Si tratterebbe dunque di un governo politico con un ampio consenso parlamentare su tre impegni di fondo: il sostegno al governo fino alla scadenza della legislatura, la presidenza della Repubblica, l’accordo sulle procedure e le linee guida della riforma costituzionale. I singoli parlamentari, naturalmente, non sono tenuti a rispettarli anche se i loro partiti glielo imponessero, perché non esiste un obbligo di mandato e possono sempre cambiare idea. Se la cambiano in tanti, l’intero disegno può sempre essere bloccato.

 


Dopo le elezioni, la politica potrebbe riprendere il suo corso sul nuovo binario costituzionale, operando su Pubblica amministrazione, scuola, regioni, giustizia, mezzogiorno, cui dovrà ovviamente aggiungersi il rilancio dell’economia e dell’occupazione e la lotta contro la povertà


 

E’ assai più probabile che non possa neppure partire. Un grande accordo come quello cui abbiamo accennato avrebbe infatti effetti asimmetrici nel quadro politico attuale: metterebbe in contraddizione i due grandi partiti populisti (Cinque stelle e Lega) con le strategie elettorali che li hanno sinora favoriti – la Lega in particolare – senza garantire loro un successo comparabile qualora mutassero radicalmente il loro orientamento politico. E’ vero, sul futuro c’è un velo di ignoranza e nel presente grandi sofferenze e preoccupazioni degli elettori, che li potrebbero indurre a imprevedibili cambiamenti di opinione. E nelle stesse forze populiste esistono personalità che non si opporrebbero a un deciso mutamento di rotta politica, un mutamento che consentisse loro di intercettare o addirittura a indirizzare l’orientamento degli elettori in quella direzione. Nei partiti più tradizionali e moderati un radicale mutamento di rotta non dovrebbe creare contraddizioni così forti come nei partiti populisti, anche se difficoltà non piccole si possono attendere quando si arrivasse a quegli aspetti della riforma costituzionale sui quali essi – Pd e Forza Italia, in particolare – hanno sempre registrato differenze insanabili. Temo tuttavia che le forze che in questo momento agiscono avendo come orizzonte una continuità col passato siano di gran lunga prevalenti su quelle convinte che un radicale cambiamento sia necessario.

 

La metafora dei lemming con cui ho iniziato questo articolo descrive la situazione come la vede un osservatore esterno, non come la vedono i loro capi: un tuffo nelle gelide acque del mare del Nord non è immediato. E in questo hanno ragione: nel futuro immediato la situazione sarà peggiore, ma non troppo diversa da come è stata nel recente passato, un debito pubblico ancor più gravoso, sofferenze e proteste diffuse, asfissia economica, polemiche continue con l’Unione europea. Dunque una situazione nella quale i partiti populisti hanno dimostrato di sapersi muovere a proprio agio. E’ solo in un futuro un po’ più lontano, ma non lontanissimo, che potrebbe prospettarsi come imminente una vera tragedia e solo allora, se non i singoli lemming, i loro capi se ne accorgerebbero: quando però l’esito di una ristrutturazione del debito o di un abbandono del sistema monetario europeo fossero molto vicini o addirittura inevitabili. Ma di queste conseguenze disastrose entrambi i movimenti populisti non sembrano convinti: essendo per loro l’Europa – e non le disfunzioni politiche, istituzionali e amministrative interne – la causa principale dei nostri guai, essi ritengono che, dopo un breve periodo di adattamento, l’uscita dall’Unione e il tuffo nel mare del Nord avrebbero un effetto rigeneratore: non un disastro, ma una salubre nuotata in acqua fresca.

 

Scrivevo all’inizio che queste riflessioni mi avevano condotto a un esito inconcludente. Rettifico quell’affermazione: è inconcludente se viene misurato sull’obiettivo di identificare una via d’uscita realistica e positiva dalla crisi imminente. Purtroppo non è inconcludente la previsione, realistica ma negativa, che tale via non esiste. Ovviamente spero di sbagliarmi, spero che anche senza governi di emergenza e riforme costituzionali altre risorse di cui non ho tenuto conto consentano all’Italia di cambiare rotta politica facendo leva sulle circostanze eccezionali dell’epidemia e sul ripensamento del sistema di governance dell’Unione europea. Ma se tutto va avanti come sta andando ora, in Italia e in Europa, il tuffo nelle acque gelide del mare del Nord è soltanto ritardato.

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