Il ministro dell'Agricoltura, Teresa Bellanova (foto LaPresse)

Tendenza Bellanova

Claudio Cerasa

Mettere da parte estremismi di destra e di sinistra. Trasformare il compromesso in un’arma contro i populisti. Disinnescare i machismi nazionalisti. Oltre le lacrime. Perché il modello Bellanova può aiutare il governo a non tirare più solo a campare

Popolare, ma non populista. Progressista, ma non nostalgica. Schierata, ma non ottusa. L’immagine del ministro Teresa Bellanova in lacrime durante la conferenza stampa di mercoledì sera è un’immagine che fotografa qualcosa di molto più interessante di una bella battaglia vinta dal ministro dell’Agricoltura. La scelta – come chiedeva e suggeriva da settimane il Foglio – di regolarizzare attraverso una procedura di emersione una quota significativa di immigrati irregolari che vive in Italia è una scelta giusta perché permette di far emergere una parte dei 600 mila invisibili (200 mila circa) che da anni vive e lavora in Italia sfuggendo a ogni regola e a ogni forma di prescrizione sanitaria. Solo in termini di gettito fiscale, secondo gli economisti Enrico Di Pasquale e Chiara Tronchin, la regolarizzazione, seppure al momento prevista per una durata di appena sei mesi, è destinata a produrre notevoli benefici economici e sociali (gettito aggiuntivo pari ad almeno 1,2 miliardi di euro) ed è destinata a dare un forte sollievo ai produttori agricoli che grazie alla regolarizzazione potranno combattere il caporalato facendo fronte all’assenza di manodopera in questo settore (un’assenza che sempre secondo il ministro avrebbe mandato in enorme sofferenza le nostre aziende agricole).

 

 

  

Al di là delle ragioni di carattere economico – Salvini forse non lo sa ma per regolarizzare i migranti il governo userà una norma contenuta nel decreto “Sicurezza” firmato proprio da Salvini ai tempi del Conte I, norma che prevedeva un canale agevolato per la regolarizzazione dei migranti in caso di calamità naturale – l’immagine delle lacrime di Teresa Bellanova ha una sua rilevanza non solo per l’oggetto in discussione ma anche per il soggetto in questione. E da un certo punto di vista il ministro rappresenta il faro giusto per illuminare tutto quello di cui oggi avrebbe bisogno un governo con la testa sulle spalle desideroso di offrire risposte non ordinarie a una stagione straordinaria.

 

C’è la storia di una politica che cerca di lavorare a un nuovo modello economico capace di tenere insieme il meglio del liberalismo economico senza i suoi tratti più estremisti e il meglio della socialdemocrazia senza i suoi tratti più estremisti. C’è la storia di una sindacalista che ha capito per tempo che il compito dei sindacati non può essere quello di rincorrere la cultura della nostalgia ma deve essere quello di utilizzare le leve della tecnologia per provare a trasformare l’innovazione nel migliore alleato della crescita di un paese. C’è la storia di una politica che ha capito che la disoccupazione non dipende necessariamente dai danni causati dal liberismo ma dipende prima di tutto dalla discrepanza tra domanda e offerta di competenze. C’è la storia di una politica che non ha paura di ricordare che la globalizzazione non ha affamato il mondo ma ha contribuito a liberare miliardi di persone dalla povertà. Ma soprattutto c’è la storia di un’imprevedibile alchimia – e di un difficile ma non impossibile punto di contatto tra culture diverse – che potrebbe aiutare una maggioranza sbagliata nata per una causa giusta a individuare una rotta per il futuro. Teresa Bellanova, ministro di punta del partito di Matteo Renzi, è la dimostrazione plastica di come la maggioranza di governo possa provare a individuare una strada non solo per tirare a campare ma anche per provare a governare. Con un ritmo che è quello che in parte – solo in parte – si è intravisto anche tra le righe del decreto: adottare la logica del compromesso piuttosto che la logica dello strappo, trasformare la mediazione in un antidoto contro il populismo, affidarsi alle leve europee per provare a disinnescare il sovranismo, utilizzare la presenza di più partiti nella coalizione per offrire ai movimenti più estremisti una buona scusa per non mantenere le proprie promesse, combattere il nazionalismo non inseguendolo sul suo stesso terreno ma mostrando quotidianamente la sua incompatibilità con la realtà.

 

E in una stagione in cui l’Europa sta scoprendo o riscoprendo la forza delle sue donne leader – c’è Angela Merkel che guida la Germania, c’è Mette Frederiksen che guida la Danimarca, c’è Zuzana Caputová che guida la Slovacchia, c’è Nicola Sturgeon che guida la Scozia, c’è Christine Lagarde che guida la Bce, c’è Ursula von der Leyen che guida la Commissione europea – non può essere un caso che nel governo le figure che finora hanno tenuto testa più di altri al machismo nazionalista siano state proprio due donne: il ministro dell’Agricoltura Teresa Bellanova e il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, valori aggiunti del governo per quello che fanno più che per quello che sono e che potrebbero dare un contributo per ricordare che la maggioranza più che tirare a campare ora come non mai deve provare a governare.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.