Nicola Zingaretti e Matteo Salvini (Foto LaPresse)

Il nostro governo sta perdendo il nord

Maurizio Martina*

Non ci può essere un nuovo inizio per il paese senza la forza, sociale e pubblica, delle aspirazioni dell’impresa e del lavoro. Appello alla maggioranza e al Pd 

Dobbiamo stare attenti a non perdere il nord. Lo dico prima di tutto al mio partito che rimane uno dei pochi soggetti della politica, se non l’unico, in grado di aiutare la difficile traversata che l’Italia deve compiere dopo la pandemia, lavorando sull’interesse generale. Qui più che altrove il dramma del virus ha colpito al cuore le comunità, facendoci scoprire anche vulnerabilità e fragilità troppo spesso celate.

Non perdere il nord significa non smarrire la comprensione delle attese, delle difficoltà e delle potenzialità dei ceti produttivi che in queste terre hanno fatto e faranno ancora la differenza.

 

È prima di tutto una condizione pre-politica e poi certamente anche un nodo politico e programmatico. Contano le scelte che si compiono. Parlo del rapporto con artigiani, commercianti, imprenditori, partite Iva, professionisti. Parlo dei lavoratori autonomi che vivono e soffrono accanto a tanti lavoratori dipendenti. So bene che molti di loro non vivono le stesse condizioni, ma posso assicurare che tutti loro soffrono le stesse angosce.

Per ricostruire il Paese serve un rapporto forte col nord.

 

Ne possiamo lasciare campo libero in queste terre alle follie di una destra egemonizzata dalle urla di chi predica di stampare moneta in autonomia e di chi vorrebbe incendiare il dibattito contro il nuovo meccanismo europeo di stabilità, aperto a un finanziamento di 37 miliardi di euro quasi a tasso zero per la riorganizzazione della nostra rete sanitaria. Chiedano agli imprenditori del nord se rifiuterebbero una condizione simile per le loro imprese.

 

Non perdere il nord è fondamentale anche per il Mezzogiorno, dove non mi sfugge certo l’altro grande rischio che corriamo in termini prima di tutto sociali e di inasprimento ulteriore delle diseguaglianze.

È stato detto giustamente che dobbiamo ripartire dai nostri punti di forza tra i quali la forte vocazione all’export del sistema produttivo e la massiccia capacità di risparmio privato degli italiani. Sono d’accordo. Sono proprio le due caratteristiche essenziali delle famiglie e delle imprese innanzitutto in queste terre. E segnalo che i diversi fronti del lavoro da tutelare oggi stanno lì, tra i lavoratori della logistica nella bassa lombarda come in Piemonte, Veneto ed Emilia o tra le lavoratrici e i giovani del commercio ancora più sotto pressione.

 

Per come la vedo io, una vecchia discussione tra Stato e mercato non è all’altezza del nuovo mondo che abbiamo davanti. Questo dibattito non era sufficiente prima del virus, figuriamoci dopo. Il tema, semmai, è ripensare sia il mercato che lo Stato e avere una nuova visione dell’economia sociale di stampo liberale in una moderna democrazia.

Il mito del mercato che si autoregola sempre e per tutto non regge più, lo Stato è chiamato a nuove funzioni anche dagli stessi ceti produttivi. Cosi come non regge più l’esaltazione acritica della centralità del cittadino consumatore a ogni costo (e a scapito prima di tutto del cittadino-lavoratore). Ma la soluzione non è certo in un ritorno al “vecchio” Stato.

 

Semmai domandiamoci cosa deve essere davvero lo Stato “garante” nel quadro di un investimento di sovranità imprescindibile verso l’unico scudo possibile che è l’Europa.

Il virus e la pandemia, ci impongono di ridisegnare le funzioni dei poteri pubblici a ogni livello e di concepire un modello di sviluppo e di crescita fondato su caratteri diversi – la sostenibilità innanzitutto – e per me su un nuovo incontro essenziale tra privato e pubblico.

 

Lo spazio è quello dell’economia civile che chiama a una sfida di corresponsabilità e progettazione condivisa. Una traduzione immediata? Entrino i lavoratori nei consigli di amministrazione delle aziende giustamente aiutate dallo Stato e in un patto condiviso, ci si impegni a non delocalizzare e a non licenziare brutalmente.

È fondamentale avere un’agenda per questa prospettiva. Ma su quali punti?

 

Certamente la questione fiscale da rimettere in equilibrio perché ancora totalmente sbilanciata a danno di chi lavora e intraprende e a vantaggio di chi evade e di chi ha rendite.

Poi la questione burocratica, perché il cortocircuito procedurale è un dramma che rischia di affossare qualsiasi norma utile. Se non sconfiggiamo una volta per tutte “la paura della firma” non ce la faremo. Serve una svolta subito, sperimentando davvero la via delle autocertificazioni e organizzando un efficiente sistema di controlli post.

Il terzo nodo è la questione istituzionale, perché non possiamo più rimanere negli anfratti di una discussione strabica tra centro e periferia dove non si capisce mai chi deve fare davvero ed emerge invece la necessità di una moderna cultura dei territori – io penso a partire dai Comuni - capace anche di dare identità nella globalizzazione.

Il quarto fronte è la centralità del lavoro e la sua dignità, sempre, a partire da compensi e condizioni eque per donne e uomini e da un sistema di diritti davvero esigibili.

Il quinto tema è il capitale umano poiché non può esserci prospettiva senza una moderna piattaforma di accesso ai saperi lungo tutto l’arco della vita e per tutti, a partire dalle giovani generazioni.

Il sesto è la centralità della manifattura che non va osteggiata ma al contrario ricollocata nello scenario della massima sostenibilità, scegliendo sul serio i settori strategici green su cui puntare anche a scapito di altri con autentiche politiche industriali.

Il settimo nodo è il sistema delle connessioni materiali e immateriali ovvero infrastrutture per persone, merci e dati. Ovunque però. Non solo nell’area metropolitana di Milano. Banda larga, reti, porti, aeroporti, ferrovie, strade, ponti. E il trasporto pubblico che ha subito in due mesi uno shock destinato a cambiarlo in profondità. Ci sono 150 miliardi di fondi pubblici già a bilancio per lavorare su queste partite e vanno spesi, bene e tutti, oggi.

L’ottavo tema decisivo è la questione demografica e il ripensamento radicale delle protezioni sociali. Perché serve più welfare, non meno. Avete presente cosa non saranno più le Case di Riposo dopo quello che è successo? Domandiamoci quali nuove risposte servono a fronte di quel vuoto e di migliaia di famiglie che dovranno rivedere i tempi di vita e tempi di lavoro, mettendo in seria difficoltà prima di tutto le donne. E domandiamoci come fare a organizzare una volta per tutte un sistema universale di sostegno alle persone, indipendentemente dal contratto di lavoro che hanno (o non hanno). Perché anche la Cassa Integrazione non regge più, così com’è, alla prova del virus (e per fortuna che comunque c’è ed è stata estesa e semplificata nonostante i suoi evidenti problemi).

 

Io vedo che negli sforzi del governo di queste ore ci sono anche i segnali giusti lungo questa rotta. Il decreto “Rilancio” per la sua portata finanziaria e i suoi contenuti può essere decisivo. Il taglio dell’Irap aiuta a lasciare risorse alle aziende. Il credito d’imposta per gli affitti commerciali anche. Investire come mai fatto prima per sostenere le riqualificazioni edilizie in chiave di efficienza energetica e sicurezza sismica può rivelarsi decisivo per il comparto dell’edilizia e le filiere dell’indotto. Le risorse a fondo perduto per artigiani e commercianti e l’allargamento del sostegno a tutto il lavoro autonomo, sono atti giusti mai fatti prima.

Potrei continuare. Bisogna insistere e rafforzare la strategia. A mio parere a ragione chi sostiene ad esempio che si debba lavorare ancora dal lato dello stimolo della domanda, a partire da settori cardine come l’auto dove deve poter essere esplorata anche la via di una nuova rottamazione per i veicoli più inquinanti.

 

Discutiamone dunque. Non ci può essere un nuovo inizio per il Paese senza la forza, sociale e pubblica, delle aspirazioni dell’impresa e del lavoro. E senza un nuovo protagonismo delle persone auto organizzate nella società.

Molti di noi sono stati abituati a vivere i dividendi positivi della globalizzazione. Oggi, più che nel recente passato, dobbiamo invece fare i conti con i suoi dividendi negativi. E questo è un motivo in più per cercare di essere utili al Paese che deve poter avere una classe dirigente all’altezza del proprio futuro.

 

*deputato Pd

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