“Ma chi è Geraci?”. La Lega fa causa a Pechino per rinnegare il suo passato recente
L’ex sottosegretario del Carroccio era il “China man” del governo
Roma. Con quella brutalità di modi tutta lùmbard, recitata eppure autentica, alla fine Paolo Grimoldi è sbottato coi suoi corregionali: “Ma chi accidenti è questo Michele Geraci?”. Non ricordava, il segretario della Lega lombarda, che proprio il suo partito, il suo “Capitano”, aveva esaltato l’economista palermitano, nominandolo addirittura sottosegretario allo Sviluppo economico con la delega al Commercio estero nel governo gialloverde. Ma del resto per molti, nel Carroccio, Geraci è sempre stato un corpo estraneo, una meteora che rapidamente ha trascorso il firmamento padano per poi esserne allontanato in virtù della sua eccessiva vicinanza al regime cinese. Per cui, quando Giorgetti ha spiegato a Salvini l’importanza di riallinearsi al credo atlantista, ecco che Geraci, il quale nel frattempo aveva sovrinteso, per conto di Di Maio, alla realizzazione della Via della Seta, è stato messo più o meno garbatamente alla porta. E forse non è un caso che proprio nei giorni scorsi è tornato a farsi vivo, con lo scrupolo di sempre: perorare la causa cinese.
Così, quando ha saputo che la Lombardia stava per annunciare un’azione legale per chiedere venti miliardi di danni a Pechino per le conseguenze del Covid-19, s’è precipitato a contattare Grimoldi, tentando di indurlo a ripensarci. E Grimoldi se lo è ascoltato per un po’, a quanto pare, prima di liquidarlo. Forse consigliato, in questo, da Max Ferrari, leghista di Varese, già inviato di guerra per La Padania, quarantanovenne dal carattere brusco e dall’ondivago orientamento internazionale: prima seguace di Savoini nell’associazione Lombardia-Russia, ha poi animato il suo equivalente Lombardia-Cina. Quindi, prima di diventare responsabile Esteri della Lega lombarda, s’è riscoperto convinto atlantista, dopo un innamoramento per l’intelligence israeliana. E insomma era fatale che a respingere definitivamente Geraci fosse proprio Ferrari, che in un certo senso incarna il lungo sbandamento salviniano in politica estera, prima che Giorgetti riconducesse il partito sui binari di un americanismo perfino esasperato. E infatti è stato proprio Giorgetti a suggerire al governatore Fontana di chiedere i danni a Pechino: mossa più politica che legale, a ribadire la fede anti-cinese di un Carroccio ansioso di riaccreditarsi con Washington. E non è stato semplice: perché qualcuno, nella giunta regionale, ha sconsigliato l’iniziativa, ricordando i non irrilevanti interessi commerciali che Milano coltiva con la comunità cinese. Ma alla fine, su invito di Giorgetti, è intervenuto lo stesso Salvini a troncare ogni tentennamento.
L'editoriale del direttore