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Salvini, Meloni e Tajani forzatamente insieme da Conte per l'unità nazionale

Salvatore Merlo

Non guardano nemmeno dalla stessa parte. Il forzista si sente estraneo, Giorgia e il padano sono avversari. Strategie e parole divergenti

Roma. Sono usciti dall’incontro con Giuseppe Conte a Palazzo Chigi come quei compagni di scompartimento che, dopo ore di faccia a faccia, riacquistano tutta la loro estraneità non appena il treno rallenta per entrare in stazione. E dunque ecco la foto che in un lampo restituisce il senso di una fase politica: Antonio Tajani, Matteo Salvini e Giorgia Meloni, il triangolo del centrodestra, che intorno alle due del pomeriggio riemergono su piazza colonna, dopo aver discusso con il capo del governo, e lo fanno senza rispettare la distanza igienica di un metro prescritta dall’Oms e dall’istituto superiore di sanità al fine di evitare i contagi da coronavirus.

 

Eccoli dunque costretti, dallo spazio e dalle esigenze del momento, a restare attaccati l’un l’altro, fisicamente come in politica, promiscui, malgrado ciascuno coltivi in realtà orizzonti lontani, non sempre compatibili né convergenti, proprio come i loro sguardi nella foto. Ciascuno guarda altrove, ed è altrove: potenza veritativa delle immagini. E infatti Tajani, esibendo il valore della prudenza, affidabile e rassicurante, ieri ha manifestato al presidente del Consiglio la volontà di collaborare da parte di Forza Italia, “ci saranno dei tavoli tecnici sia in materia sanitaria che economica”, ha detto, mentre insisteva con l’idea del supercommissario chiamato ad affrontare il virus, spingendo su Guido Bertolaso e su un clima di unità nazionale nel quale Tajani, ex presidente del Parlamento europeo, si riconosce per natura e per status.

 

Tutto un insieme d’inclinazioni che Matteo Salvini (che nella foto guarda in obliquo) ha invece soltanto assecondato, ancora una volta per necessità, interessato com’era piuttosto a un’altra rappresentazione di sé e della scena. Alla drammatizzazione. Il clima di unità nazionale è per Salvini uno dei tanti strumenti da gaio scassinatore politico, da ricercatore indefesso di cimenti, battaglie ed elezioni: “Stiamo dimostrando responsabilità, voglia di dialogo e compattezza”, ha premesso in versione statista (non a caso indossava la cravatta). “Ma non sono contento di quello che ho sentito da Conte”, ha subito aggiunto, rivelandosi. “Abbiamo chiesto di chiudere tutte le attività in Italia e Conte ha detto di no” (preciserà poi Palazzo Chigi: “Non è stato detto di ‘no’, ma gli è stato spiegato che l’ipotesi è oggetto di valutazione”). E insomma la foto del centrodestra tende a un’ambiguità suggestiva, rivela un gioco cinico e paradossale di amori oscuri. Tajani uscendo dal Palazzo getta lo sguardo da un lato, evidentemente estraneo agli altri due, Salvini e Meloni, che non si guardano perché sono avversari e concorrenti, con la Meloni che vorrebbe liberarsi dagli eccessi e dalle dichiarazioni tonanti per fare politica ma è costretta a inseguire Salvini sul suo terreno. E infatti Giorgia, che guarda a destra (non solo nella foto), vorrebbe fare opposizione per aiutare il paese e non per sgovernarlo ulteriormente, ma pure deve sempre coprirsi il fianco da Salvini, sbrigliato e circense, anguilla metafisica. Quindi se lui dichiara “pugno di ferro” contro i carcerati anche lei fa rullare i tamburelli di guerra su Facebook e Twitter, ma poi al tavolo con Conte è lei – e non Salvini – a concentrarsi sulle cose serie: “Siamo disponibili a votare il decreto sullo scostamento se qualcuno ci garantisce che è l’inizio di un percorso”.

 

E insomma la foto riprodotta qui è forse la prova che non è vero quell’adagio secondo il quale la macchina fotografica è stata inventata per sabotare l’impressionismo. Tutto si scopre in una fotografia, scrutandola. Ci vorrebbe Dan Brown per rivelare fino in fondo il codice racchiuso nelle asimmetrie imperfette dei tre rappresentanti del centrodestra – Berlusconi è l’assenza che incombe dalla Provenza, dov’è in ritiro con la figlia Marina – con la sua freddezza calligrafica, perfezionistica. Gli alleati se ne stanno così, proprio come appaiono sulla soglia di Palazzo Chigi dopo aver parlato con Conte, vicinissimi eppure lontani, ciascuno chiuso in un suo guscio, immerso nella propria urtante estraneità, ciascuno intento a considerare con perplessità e calcolo i rispettivi vantaggi di questa convivenza ai tempi del coronavirus. Ciascuno sospeso come il proprio sguardo, assaliti da un fastidio così persuasivo per i compagni da averne forse persino paura.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.