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L'influenza che spiega l'Italia

Claudio Cerasa

Il coronavirus è come una safety car. Ne parliamo tutti non solo per paura ma anche perché in un paese che rallenta è più semplice osservare i nostri vizi e le nostre virtù. Politica, economia, media e percezione che si afferma sulla realtà. Una controstoria

Il bollettino quotidiano del coronavirus, relativo alla giornata di ieri, ci dice che i casi accertati in Italia sono quattrocento, ci dice che il numero dei morti è arrivato a quota dodici, ci dice che la quarantena del paese sta infettando gravemente la nostra economia – a Roma è stato cancellato il 90 per cento delle prenotazioni turistiche per il mese di febbraio. Ma ci dice anche altro, ci dice che qualche buona notizia arriva, ci dice che a Milano – dove è stata data nuovamente ai bar la possibilità di restare aperti oltre le 18 – si cerca di ritornare alla normalità, ci dice che i focolai sono rimasti quelli di una settimana fa e ci dice che i casi di pazienti che guariscono da coronavirus sono superiori rispetto ai casi di pazienti che non guariscono, come ci testimonia, in piccolo, la storia dei primi due malati registrati in Italia, i due cinesi che si sono sentiti male all’hotel Palatino a Roma, che dopo essere stati ricoverati per 29 giorni all’ospedale Spallanzani sono risultati, ieri, finalmente entrambi guariti.

 

Da un certo punto di vista, nella nostra quotidianità, il racconto del coronavirus ha riempito, come storie, come tensione, come emozione, il vuoto generato dalla fine di Sanremo, e non a caso il governo si è affidato proprio ad Amadeus per provare a sensibilizzare i cittadini sulle buone pratiche quotidiane che possono aiutare a contenere la trasmissione del virus. Ma la ragione vera per cui le discussioni sul coronavirus sono entrate ormai stabilmente nelle nostre case ha a che fare con un fenomeno che potremmo tentare di inquadrare usando l’immagine della safety car. La safety car è la macchina che a seguito di incidenti molto gravi viene utilizzata nelle competizioni automobilistiche per rallentare il gruppone. E in quei minuti preziosi, mentre si riducono le distanze tra gli abitacoli, i piloti – con le loro scuderie – hanno la possibilità di osservare al rallentatore quali sono i pregi e i difetti delle proprie vetture. In questo senso, la diffusione del coronavirus ha avuto sull’Italia l’effetto di una gigantesca safety car. E in questi giorni in cui una buona parte del paese è stata costretta a rallentare, in molti hanno potuto osservare più da vicino, praticamente in diretta ventiquattro ore su ventiquattro, alcune virtù e soprattutto alcuni vizi del nostro paese. A livello politico, il coronavirus ha permesso di individuare con chiarezza qual è la linea non troppo sottile che divide una politica che prova a essere responsabile e una politica che tratta la responsabilità come se fosse una malattia – vedere per esempio la differenza tra la Lega modello Zaia, ogni occasione è giusta per evitare una polemica, e la Lega modello Salvini, ogni occasione è giusta per fare una polemica. A livello economico, il coronavirus ha permesso di ricordare con forza quali sono i malanni che rendono l’Italia vulnerabile a ogni choc esterno – e la ragione per cui il nostro paese ha sofferto in Borsa più di molti altri cugini europei non è legata alla semplice diffusione del virus ma è legata a fattori strutturali che fanno dell’Italia una nazione che si trova spesso a vivere sul filo del rasoio: un debito troppo alto, una crescita troppo bassa e una predisposizione naturale a generare sfiducia nel futuro.

 

A livello governativo, il coronavirus ha permesso di rendere evidente quanto possa essere pericoloso, per un paese fragile come il nostro, prendere provvedimenti per governare un’emergenza capaci nel giro di poco tempo di creare un’altra emergenza – e per quanto l’azione del governo venga valutata oggi da diversi paesi come un esempio da seguire nel caso in cui la diffusione del virus dovesse estendersi in modo virale anche fuori dall’Italia è facile immaginare che tutti i paesi che si troveranno a maneggiare il principio di precauzione eviteranno di commettere gli errori che hanno portato il nostro paese a mettere in quarantena non solo i pazienti sospettati di essere infetti ma, in definitiva, la nostra intera economia.

 

A livello istituzionale, il coronavirus ha permesso di mettere in rilievo un limite strutturale del nostro paese che riguarda il rapporto tra lo stato centrale e le regioni, vedi il caso delle Marche che chiude le scuole nonostante il parere contrario del governo e vedi il caso della Basilicata che in autonomia arriva persino a vietare l’ingresso ai lombardi e veneti – e chissà se solo per un attimo coloro che hanno votato No al referendum costituzionale del 2016 si sono resi conto di quanto sarebbe stato importante, per un paese come l’Italia, avere una clausola di supremazia statale capace di dare allo stato centrale, in situazioni specifiche, la capacità di accentrare provvisoriamente il potere per evitare di affrontare in modo disunito crisi per le quali può non essere sufficiente invocare una semplice leale cooperazione.

 

A livello mediatico, il coronavirus ha permesso di mettere in luce una grave patologia per così dire culturale del nostro paese che è quella che riguarda la capacità del nostro circuito mediatico, tranne piccole eccezioni, di informare senza allarmare, di raccontare senza angosciare, di non trasformare ogni problema risolvibile in un problema irrisolvibile e di evitare in definitiva di rendere l’Italia percepita più importante di quella reale.

 

A livello internazionale, infine, il coronavirus ha dimostrato che un paese interconnesso come l’Italia non può vivere nella inconsapevolezza di come funziona il mondo e non può non ricordare in ogni momento della sua esistenza che la sua forza è direttamente proporzionale alla capacità dello stato centrale e del governo di cooperare con gli altri paesi, di coltivare le alleanze giuste, di difendere le sue imprese, di non fuggire dalla globalizzazione – e chissà cosa avranno pensato in questi giorni i leghisti più esagitati trovandosi di fronte un alleato, come la Le Pen, desideroso di chiudere i confini con l’Italia e un non-alleato come Macron desideroso di non isolare l’Italia e di lasciare aperto il confine con il nostro paese. La crisi generata dal coronavirus ha permesso di squadernare davanti ai nostri occhi alcuni guai del nostro paese. E quando si riuscirà a tenere sotto controllo questa speciale e grave influenza stagionale, l’Italia dovrà chiedersi se non sia arrivato il momento di occuparsi delle influenze strutturali che debilitano il nostro paese con la stessa violenza di un virus molto pericoloso.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.