Giuseppe Conte (foto LaPresse)

Ora la maggioranza crede allo strappo

Valerio Valentini

Renzi lavora al dopo Conte, il Pd pensa al voto. Si balla, ma non troppo

Roma. Seduto nel suo scranno, accerchiato da cinque suoi senatori ma nell’Aula semivuota e silenziosa a causa dell’ennesima sospensione dei lavori, pare davvero un carbonaro che confida ai congiurati il piano della cospirazione. E invece Matteo Renzi, a cui un senatore di Forza Italia chiede “di non fare cadere il governo”, di “non mettere a rischio la legislatura”, ammicca all’azzurro Paolo Romani, quello che teoricamente dovrebbe creare il gruppo di responsabili con cui rimpiazzare Italia viva, e insieme si mettono a rievocare i tempi felici del Patto del Nazareno, e quelli sciagurati in cui saltò. “Fu colpa di D’Alema, che propose lui Amato al Cav.”, dice l’ex premier. “Sì, ma anche tu potevi condividere Mattarella con Silvio e Gianni Letta”, gli replica Romani. Segnali, forse, dell’intenzione di riaprire il dialogo con Arcore? Chissà. Sta di fatto che poi, ai suoi senatori che gli hanno chiesto un chiarimento, Renzi la squaderna davvero, la sua visione. “Tra sei mesi – dice – arriverà una recessione tremenda. E a quel punto il governo entrerà in crisi non per i litigi della coalizione, ma per l’economia ferma. Per questo il Pd punta ad arrivare a settembre con questo assetto, per poi chiedere nuove elezioni o rivendicare la guida del governo. Ed è per questo che ora dobbiamo alzare la voce, farci rispettare, puntare tutto sulla crescita”. Se questa è la prospettiva, però, meno chiara – almeno agli occhi dei suoi parlamentari – è la tattica da utilizzare. Perché, vuoi o non vuoi, qualsiasi piano di Renzi passa per l’abdicazione, in tempi neanche troppo lunghi, di Giuseppe Conte

 

“Il premier dice che vuole incontrarmi, ma io – insiste Renzi – non ho nessuna smania di andare a trovarlo a Palazzo Chigi. So solo che, siccome questa legislatura deve durare, deve puntare in alto”. Il che, a qualcuno, pare il preludio per l’appello a un governo istituzionale, di larghe intese. E quindi torna davvero il Nazareno, nell’orizzonte di Renzi. O magari, se fosse necessario, anche un’intesa perfino più larga che preveda un’apertura alla Lega, magari solo funzionale a esasperare la tensione intorno a Matteo Salvini. Del resto, sono arrivate anche alle orecchie di Renzi le “parole irripetibili” (così un senatore del Carroccio) che Giancarlo Giorgetti, teorico del “governissimo”, va ripetendo da giorni sul conto del suo segretario: “Salvini non ha capito – dice Giorgetti ai suoi interlocutori – che dopo Conte non ci sono le elezioni, ma o un nuovo governo a guida Pd oppure un governo istituzionale”.

 

E però, nel disorientamento generale che le mosse spregiudicate di Renzi producono, tra i corridoi di Palazzo Madama gli esponenti del Pd ne approfittano per provare a fomentare la paura nella truppa di Iv. E forse per provare a innescarla loro, l’escalation. Per questo Valeria Fedeli intercetta la ministra renziana Elena Bonetti, la catechizza sul precipitare imminente degli avvenimenti. “I renziani dicono che il governo non cade – sorride la Fedeli – ma io invece gli spiego perché, data la situazione, non può che cadere. Ormai Renzi è andato troppo avanti”. Certo, ci sarebbero i responsabili. Ma l’operazione “sostituzione”, invocata da Goffredo Bettini, è già abortita: “Anche perché, se imbarchiamo senatori di FI, chi ci garantisce – ha spiegato Dario Franceschini con serafica lucidità – che quelli poi non tornano da Salvini al primo fischio?”.

 

E allora ecco che Luigi Zanda la crisi la descrive già come irrimediabile: “La maionese ormai è impazzita, e quando impazzisce non la si può più mangiare”. E allora ecco che i senatori dem si adeguano agli ordini di scuderia, provano tutti a misurare la febbre ai renziani: “Vediamo quanto tremi”, scherza Luciano D’Alfonso stringendo la mano a Eugenio Comincini. E allora ecco anche le voci, alimentate dal Pd, su un Renzi pronto a invocare un governo tecnico, guidato da Raffaele Cantone. Ipotesi che però non pare rientrare tra quelle valutate dal senatore di Scandicci, che si stringe nelle spalle e, per tutto il giorno, suggerisce al suo capogruppo Davide Faraone di non cedere alle eventuali provocazioni. Che arrivano, manco a dirlo, sulla giustizia. Perché senza grande preavviso, quando il decreto sulle intercettazioni sta per arrivare in Aula per la fiducia, Pietro Grasso, in un gioco di sponda col M5s e con un pezzo del Pd, presenta un emendamento sull’estensione pressoché indiscriminata dei trojan nelle intercettazioni: un’impuntatura che terrà in fibrillazione il Senato per tutta la giornata, in una mossa neanche troppo sottaciuta, da parte di Alfonso Bonafede e alcuni vertici dem, per mettere nell’angolo i renziani.

 

E quanto sia strumentale, la mossa, lo dimostra l’accesso di rabbia con cui Valeria Valente, unica senatrice riformista del Pd in commissione Giustizia, a metà pomeriggio prende da parte il capogruppo Andrea Marcucci e gli sbuffa sul grugno: “I nostri dicono che dobbiamo votarla perché lo vogliono i grillini. Ma a furia di lavorare nell’ottica della coalizione finiremo per dire anche noi del Pd ‘intercettateci tutti’?”. A dimostrazione di come, quel certo appiattimento sul grillismo manettaro, comincia a creare malesseri reali, tra i dem (e infatti anche la deputata Patrizia Prestipino, nei giorni scorsi, ha duramente contestato il compromesso raggiunto sul lodo Conte). E così, nel caos fluido del Parlamento, succede che la sfida muscolare tra Renzi e il Pd si giochi anche sul campo dei cambi di casacca: e per questo, di fronte alle operazioni dei dem per accogliere nelle proprie file della Camera l’ex grillino Santi Cappellani, Iv ha formalizzato l’ingresso nel gruppo di Michela Rostan, fuoriuscita di Leu, e al Senato scippa Tommaso Cerno ai dem. E forse anche per dare una forma al magma, Pd e Iv provano a forzare le resistenze del ministro grillino Federico D’Incà per accelerare sulla legge elettorale: “Approviamola in commissione prima del 29 marzo”, hanno concordato il dem Dario Parrini e Maria Elena Boschi. Ufficialmente, per evitare che Salvini, all’indomani del referendum sul taglio dei parlamentari, possa dire che questo Parlamento sia delegittimato. Ufficiosamente, per motivi opposti: Renzi è convinto che, col proporzionale al sicuro, tanti da Forza Italia si sgancino dalla Lega; il Pd, invece, sa bene che una volta che si fa la legge elettorale, andare a votare è più semplice. “Così anche Matteo si dà una calmata”, dicono al Nazareno. “Ma il punto è che a settembre arriva la recessione – ripete Renzi – e a quel punto sarà il Pd che vorrà staccare la spina.