(foto LaPresse)

La continuità del governo sono le nomine

Valerio Valentini

Perché Conte flirta con “l’opposizione Letta” (Gianni). Lega in apprensione

Roma. L’occasione per riattivare i canali è stata la più banale di tutte: uno scambio di auguri per Natale. E poi, forse riscoprendo una certa affinità di vedute, pare che i contatti non si siano più persi. Perché, più ancora delle festività di fine anno, una ricorrenza assai più importante incombe, nel calendario della politica italiana. E allora ecco che, in vista del gran ballo delle nomine di primavera, Giuseppe Conte e Gianni Letta si sono scambiati alcune considerazioni non proprio disinteressate sui destini del paese. Convenendo entrambi, insieme alle rispettive diplomazie, su due punti sostanziali: il primo è che, laddove i risultati fin qui conseguiti nel corso dell’ultimo mandato risultino soddisfacenti, la continuità dovrà essere, in linea generale, un valore da salvaguardare. Il secondo, conseguente, è che a guidare le scelte da prendere per rinnovare i vertici delle grandi partecipate di stato dovrà essere l’ansia di proteggere gli interessi del “sistema Italia”, e non solo quelli dei partiti di maggioranza. Valutazione solo apparentemente banale: perché, fuori dal gergo evanescente del caso, sta a indicare la disponibilità del presidente del Consiglio a tenere in considerazione anche le indicazioni che arriveranno, appunto, dal quartier generale lettiano.

 

Che del resto, in queste settimane di lavori preliminari in vista dell’infornata di nomine di marzo, è tornato più che mai attivo. L’idea, come è stato concordato anche col Quirinale, è quella di istituire una “cabina di regia” per le nomine: in cui, quindi, dovranno trovare il loro posto a sedere, sia pure risicato, anche i partiti dell’opposizione. E siccome nel tessere queste trame è sommo maestro – lui che è da sempre l’eminenza ligia più che grigia alle spalle del Cav. –, Letta va predicando la non belligeranza da tempo, verso Conte. Un po’ perché c’è stima sincera, nei confronti del fu “avvocato del popolo”, un po’ perché Letta sa bene che anche stando fuori dal governo ci si può creare lo spazio per reclamare un certo spazio di manovra (prefigurando anche l’eventualità di un soccorso azzurro a un esecutivo assai traballante). “Opposizione lettiana”, la definiscono i suoi conoscitori, col tono di chi sa che trovare un aggettivo diverso da quello che richiami la persona è difficile. Ed è quel tipo di opposizione che proprio Letta – convinto che in nessun modo possa essere questo Matteo Salvini il riferimento per moderati e liberali – è tornato a consigliare sabato scorso, sottovoce, durante un vertice convocato da Silvio Berlusconi ad Arcore, un pranzo che poi s’è prolungato fino all’ora dell’aperitivo. E siccome le voci corrono, sono arrivate anche nel quartier generale di Matteo Renzi. Il quale, in fondo, non s’è stupito troppo della faccenda, e ha anzi ricordato ai suoi interlocutori di quando anche lui fu nei panni indossati la scorsa estate da Conte, cioè quelli di premier incaricato, e ricevendo il Cav. durante le consultazioni – era il febbraio 2014 – dopo qualche battuta sul Milan si sentì sospirare da Berlusconi una laconica promessa di aiuto indiretto: “Contro i comunisti, conti pure su di me”.

 

Quanto a Conte, il ragionamento condiviso dai renziani col loro leader è che il premier proverà a sfruttare il confronto sulle nomine per allargare il perimetro della sua maggioranza anche a un pezzo di FI, o di quella galassia di centristi apolidi e in cerca di nuovi approdi. Una paura che in fondo cova anche dalle parti di Via Bellerio, se è vero che più di un colonnello leghista teme che dopo il voto in Emilia-Romagna, e tanto più in caso di vittoria del Carroccio, l’ansia da asserragliamento giallorosso porti ad aprire le porte della maggioranza anche a un manipolo di ex azzurri. “E noi non possiamo restare a fare le scimmie urlatrici: dobbiamo prendere atto che la legislatura durerà e iniziare a fare politica”, convenivano un paio di ex sottosegretari leghisti in Transatlantico. Meglio di tutti sembra saperlo Giancarlo Giorgetti, già consapevole che la traversata nel deserto, fino al 2023, sarebbe tribolata. “Rigore è quando arbitro fischia”, sorrideva ieri pomeriggio, nell’attesa del responso della Consulta sul referendum Calderoli. “Ma noi della Lega siamo come il Sassuolo, che notoriamente non gode di favori arbitrali”, aggiungeva, a mostrare un certo pessimismo. Poi è andato a parlare con l’ambasciatore francese.

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