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Scalfarotto spiega a Di Maio perché così agli Esteri non si può stare

Valerio Valentini

“Non si scherza sul rapporto con le imprese”. Il renziano alla Farnesina contro il rischio delle deleghe in formato spezzatino

Roma. “Mettiamola giù chiara”, esordisce Ivan Scalfarotto. “Diciamo che alla Farnesina non ci resto a tutti i costi”, scandisce, lui che al ministero degli Esteri guidato da Luigi Di Maio ci sta da metà settembre, come sottosegretario, e ha avuto il tempo per riempire il suo cahier de doléances: “Dal Ceta al rispetto dei diritti umani, dal sostegno alle imprese alla nostra collocazione euroatlantica: ci sono condizioni imprescindibili, per me, per restare al governo”.

 


Ivan Scalfarotto (foto LaPresse)


 

Prima, però, Scalfarotto ci tiene a fare una premessa. E sia. “Io ero uno di quelli del ‘senza di me’”, ricorda, da renziano impenitente. “Per cui fare nascere questo governo ha comportato dei compromessi con la mia coscienza. Resto convinto che sia stato un bene per il paese, ma ora è proprio questo che mi chiedo: stiamo facendo, qui alla Farnesina, il bene del paese?”. Il dubbio è tornato ad assalirlo, racconta, dopo avere letto le ultime dichiarazioni del suo collega sottosegretario, il grillino Manlio Di Stefano. “Dice che non dobbiamo ratificare il Ceta. Ma non capisco perché, visto che in questi primi otto mesi del 2019, il nostro export verso il Canada è aumentato del 10 per cento. Da quando il trattato di libero scambio è entrato in vigore, nel settembre 2017, parliamo di quasi 438 milioni di maggiori ricavi: chi glieli restituirebbe, quei soldi, alle imprese italiane, se non ratificassimo il Ceta in Parlamento? Il M5s?”. Di Stefano obietta che non è previsto dall’agenda di governo. “Motivo in più per cambiarla, l’agenda. Non scherziamo: siamo il settimo paese al mondo per export, il quinto per avanzo di bilancio commerciale. Si parla tanto di burocrazia e di sostegno alle pmi: bene, l’eliminazione delle barriere non tariffarie prevista dal Ceta aiuta a snellire quei vincoli burocratici che sono un problema proprio per le piccole imprese. L’Epa, il trattato commerciale siglato col Giappone, nel solo 2019 ha prodotto un aumento del 20 per cento dell’export verso Tokyo”. E però il M5s è contrario al Ceta? “E’ un approccio ideologico che ha a che fare col sospetto verso le imprese, con la fascinazione per decrescita felice e protezionismo”.

 

Ma allora come si spiega questo innamoramento dei grillini verso la Cina? Di Maio, che pure incitava i gilet gialli alla rivolta, non riesce a esprimere mezza parola di solidarietà verso i manifestanti di Hong Kong. “Un atteggiamento assolutamente non condivisibile. La Cina è per noi un grandissimo mercato, e dunque è giusto collaborare, ma il rispetto dei diritti umani è, per l’Italia, non derogabile e non negoziabile. Segnalo, peraltro, che il tanto sbandierato memorandum della Via della Seta non sta dando risultati eccellenti: dalla sua firma in poi, il nostro export in Cina è perfino sceso, mentre le importazioni da Pechino aumentano. Non un grande affare, insomma. Specie se guardiamo al tutto nella giusta prospettiva: noi esportiamo in Cina 13 miliardi l’anno. Ma negli Usa ne esportiamo 42, in Francia 48, in Germania 58. Anche da qui si capisce che è giusto trattare con tutti, ma che la nostra collocazione resta saldamente quella euroatlantica”.

 

Parla come chi vorrebbe occuparsene in prima persona, di commercio estero. “Sarei qui per questo”, sospira Scalfarotto, indugiando molto su quel condizionale. “Sarei, perché siamo ancora in attesa che il ministro assegni le deleghe. E dopo tre mesi di stallo, questo comporta seri problemi nel lavoro del ministero. I patti erano molto chiari: io accettai questo incarico proprio perché mi fu garantito che sarei dovuto venire a occuparmi di commercio estero, la materia che seguo da anni, nel delicato momento del passaggio delle competenze dal Mise alla Farnesina. Ora, sento parlare di un possibile spacchettamento delle deleghe sull’internazionalizzazione delle imprese, e trasalisco. Qui serve una struttura unica, con una persona che gestisca quotidianamente la politica di sostegno all’export italiano in Europa e nel mondo”. Anche Di Stefano, però, rivendica le sue stesse competenze. “Io a questo gioco non ci sto. Non potrei mai avallare un’operazione di spacchettamento che comprometterebbe l’interesse nazionale solo per avere il mio contentino. Anche questa è una conditio sine qua non, per la mia permanenza alla Farnesina. Come ho detto: non intendo restare qui a ogni costo, specie se quel costo devono pagarlo le imprese italiane”.