Matteo Renzi (foto LaPresse)

Un gran vaffa alla teocrazia giudiziaria

Claudio Cerasa

Eccola qui una buona battaglia per difendere la sovranità dell’Italia: smetterla di sonnecchiare di fronte alla trasformazione del paese in una Repubblica fondata più sulle procure che sul lavoro. Basta esondazioni. J’accuse da applausi di Renzi

Con la stessa pigrizia che solitamente accompagna ogni tentativo della classe politica di arginare le esondazioni del potere giudiziario, temi notoriamente poco cari a quei giornali i cui ricavi sono intrinsecamente legati al numero di veline ricevute dalle procure pubblicate sulle proprie pagine, oggi, dopo aver ascoltato il magnifico discorso pronunciato ieri da Matteo Renzi in Senato contro la persistenza in Italia di una Repubblica fondata sempre meno sul lavoro e sempre più sulle procure, è possibile che molti quotidiani finiscano per incasellare il j’accuse dell’ex presidente del Consiglio all’interno della cornice errata del risentimento personale.

 

  

Quello articolato ieri da Renzi a Palazzo Madama è un discorso che ha per oggetto qualcosa di più importante della famosa vicenda giudiziaria legata alla Fondazione Open e ha a che fare direttamente con la capacità della nostra classe dirigente di mettere a fuoco un problema che da anni erode come un tarlo un’architrave della nostra democrazia: la trasformazione progressiva della Repubblica italiana in una oscena teocrazia giudiziaria all’interno della quale il potere legislativo non è in nessun modo legittimato a ribellarsi di fronte ad alcune evidenti esondazioni della magistratura.

 

Renzi invita i colleghi politici ad aprire gli occhi di fronte a una magistratura che con la complicità del circo mediatico-giudiziario “descrive come criminale non già il comportamento dei singoli, ma qualsiasi tipo di finanziamento privato che venga fatto attraverso le forme regolari e lecite previste dalla legge sulla fondazione, dalla legge sui partiti e da tutto il resto”. Ricorda che quando la politica decide di “affidare al pubblico ministero non già la titolarità dell’azione penale, ma la titolarità dell’azione politica, decidendo cosa è partito e cosa non lo è” compie inevitabilmente “un passo indietro per pavidità, per paura, per mediocrità, e lascia l’azione giudiziaria responsabile di ciò che è politica e ciò che non lo è”. E suggerisce infine di non dimenticare che la grande questione rimossa all’interno della democrazia liberale oggi è prendersi cura di un principio che dovrebbe essere caro a tutti coloro che sognano di non dare pieni poteri alla teocrazia giudiziaria: “Il principio della separazione dei poteri tra il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario”.

 

 

Il discorso di Renzi è un’esortazione rivolta al Parlamento, un invito a recuperare autonomia e dignità in una fase politica in cui il tema delle esondazioni della repubblica giudiziaria meriterebbe di essere inquadrato con minore superficialità. Come se nulla fosse, l’Italia sta accettando l’idea che siano le procure a dover guidare la politica industriale del nostro paese (vedi il caso Ilva). Come se nulla fosse, l’Italia sta accettando l’idea che siano le procure a dover decidere cosa è un partito e cosa non lo è (il caso Open). Come se nulla fosse, l’Italia sta accettando l’idea che sia legittimo, anche a costo di ritrovarsi di fronte una magistratura che prima interviene e poi cerca il reato, rimettere barbaricamente in discussione il principio costituzionale della ragionevole durata dei processi (tra 28 giorni entrerà in vigore la legge che abolisce la prescrizione). Come se nulla fosse, l’Italia sta accettando l’idea che sia legittimo continuare ad alimentare la gogna del processo mediatico eliminando ogni tentativo legislativo di non spacciare per diritto di cronaca il diritto allo sputtanamento (la riforma Orlando, che con mille difetti aveva provato a porre un limite alla pubblicazione delle intercettazione penalmente irrilevanti, doveva entrare in vigore il primo gennaio ma il M5s nell’indifferenza generale sta facendo di tutto per rinviarla ancora).

 

Come se nulla fosse, da ormai un anno, l’Italia sta accettando l’idea che sia legittimo considerare sospetto chiunque abbia esercitato il mestiere della politica al punto da aver accettato il principio di creare norme più restrittive per tutte quelle associazioni e quelle fondazioni desiderose di avere un ex politico all’interno dei propri board (merito ancora una volta dello spazzacorrotti). E come se nulla fosse, di fronte a tutto questo, in un paese in cui la magistratura gode di un margine di discrezionalità molto ampio e in cui è sufficiente un avviso di garanzia per essere considerato un presunto colpevole, la politica italiana piuttosto che trovare un modo per mostrarsi più forte cerca ogni giorno un modo per mostrarsi più docile, più inoffensiva, più vuota e dunque più debole. L’Italia, a quanto pare, è piena zeppa di politici interessati a difendere la nostra sovranità. Più che le stupidaggini sull’Europa, forse, una buona battaglia per difendere la sovranità del nostro paese potrebbe essere proprio questa: smetterla di sonnecchiare di fronte alla trasformazione quotidiana della nostra Repubblica in una oscena e barbarica teocrazia giudiziaria.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.