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Il voto sul Mes non indebolisce il governo e mostra una nuova stabilità

Valerio Valentini

Il Conte bis esce più stabile. Il M5s perde qualche pezzo ma per il premier ora c’è la stampella dei moderati

Roma. A metà della mattinata, è lo stesso Giuseppe Conte a informarsi coi suoi ministri sulla stabilità della maggioranza: “Rischiamo qualcosa?”, chiede. Ed è Federico D’Incà, dopo un secondo d’imbarazzato silenzio, che s’incarica di rassicurarlo, tra i banchi del governo della Camera: “No, presidente. Tutto sotto controllo”. Perché forse, per paradossale che possa essere, più ancora che per quelli che vanno, o che potrebbero andare, si capisce subito che la giornata passerà alla storia di questa tribolata legislatura per i grillini che resteranno. “Sull’Ilva abbiamo ceduto, confidando nel loro buonsenso. Sul Mes non potevamo ammettere titubanze”, spiega ai deputati che lo interpellano Dario Franceschini. Come a dire che, in fondo, questa prova di maturità della coalizione esige di correre il rischio: “Vediamo come va al Senato, il dato politico della giornata sta lì”, dice il costituzionalista del Pd, Stefano Ceccanti. E infatti è al Senato che sono rivolte le preoccupazioni di Conte. 

 

 

Le prime voci di rottura si diffondono nella notte. Perché, quando Gianluigi Paragone sonda i colleghi più ostili alla riforma del Mes sulla possibilità di scrivere una risoluzione alternativa a quella della maggioranza, qualcuno comincia a dire che non ce n’è bisogno, “perché voteremo quella della Lega”. I contatti col Carroccio, da parte di Ugo Grassi, Stefano Lucidi e Francesco Urraro, vanno avanti da giorni, e l’abiura grillina sul Mes è solo la scusa giusta per ufficializzare il trasloco: Matteo Salvini arriva a chiedere anche un segnale di fedeltà ai tre grillini con la valigia in mano. E quelli infatti, di prima mattina, decidono di non votare la fiducia al decreto sisma. L’allarme risuona, arriva fino a Palazzo Chigi. Ma insieme alla ruspa leghista, che punta alla spallata, si mette in moto anche l’altra macchina: quella della stabilità. Ed è più efficace, anche se lavora nell’ombra. Il solito D’Incà, responsabile del pallottoliere alle Camere, veste i panni del confessore. Insieme a lui lavora anche Nicola Morra, sempre più predicatore di concordia, tra i suoi senatori. Perfino Stefano Patuanelli viene distratto dalle sue grane quotidiane del Mise e richiamato al suo vecchio ruolo, quello di capogruppo a Palazzo Madama. Nel mentre che quello attuale, di capogruppo, Gianluca Perilli, ostenta uno strano ottimismo (“Nessuna apocalisse: mare cattivo fa buon marinaio”), che appare sempre meno improvvido col passare delle ore. Così i propositi bellicosi di Luigi Di Marzio, senatore grillino che si diceva già pronto a passare al Misto, cominciano a sciogliersi nel consueto sbuffo di malumore (“C’è un travaglio interiore”, dice), e anche la decisione di Lucidi, che sembrava irrevocabile, viene rimessa in discussione, anche per merito di una telefonata con Beppe Grillo: “Il dado è tratto? No, diciamo che lo sto ancora scuotendo”.

 

E allora anche i leghisti si fanno inquieti: “Tanto rumore per nulla, questi vanno avanti”, ripete da giorni Giancarlo Giorgetti. E lo fa anche perché sa, come lo sanno Franceschini e D’Incà, che un gruppo autonomo di moderati, guidati dal forzista Paolo Romani, è già pronto: nascerà al Senato già questa settimana, con otto o dieci componenti, mentre alla Camera ci vorrà più tempo. Chi lo ha allestito ha anche chiesto se al governo avevano bisogno di una stampella, e la risposta di circostanza è stata “no, per ora”. Ma poi, vai a sapere. “Al momento costituiamo un gruppo di moderati nel perimetro del centrodestra, che si muoverà parallelo a quello di Renzi che sta nell’altro fronte. Poi è chiaro che se la legislatura dura...”, spiega Romani, e la frase resta sospesa. Durerà, la legislatura: questa è l’impressione di tutti. “Anche sulla prescrizione, ci sono praterie per un accordo”, rassicura Alfonso Bonafede. E se ci fosse bisogno di una rassicurazione ulteriore, ci pensano Pier Ferdinando Casini e Andrea Marcucci a persuadere i tre esponenti dell’Svp al Senato (Unterberger, Steger e Durnwalder), a entrare in maggioranza. E così, mentre i tre grillini in odore di leghismo non votano la fiducia, in mattinata, i tre esponenti delle Autonomie lo fanno, e riequilibrano la bilancia. Al punto che a sera, il voto sulla risoluzione sul Mes, quello che doveva certificare la spallata, finisce con un 164 voti a favore. Perfino un paio in più del previsto.

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