Pankai Mishra (foto via Flickr: PalFest 2008)

Politica e qualche ipocrisia. E' l'Economist, bellezza

Giuliano Ferrara

Il moralismo ex post, e politicamente corretto, non è lo sguardo migliore per capire come si fa e si disfa il mondo moderno. Un confronto sul giornale e il liberalismo

Alla bella età di centosettantacinque anni l’Economist ha fatto l’errore di comporre un manifesto di generosità e di compassionevole “liberalismo per il popolo”, prendendo le distanze dalle élite autoreferenziali e “ben connesse” di cui, nella sua storia esclusiva ma anche popolare e di successo, è sempre stato campione intelligente e un po’ ribaldo. Mal gliene incolse. Chi pecora si fa, il lupo se lo mangia. Uno storico informato della City University di New York, Alexander Zevin, ha scritto una documentata e divertente storia dei suoi errori ideologici a partire dalla fondazione (1843) (“Liberalism at Large: The World According to the Economist”), e il divino censore new left della mentalità coloniale e capitalistica, Pankai Mishra, ci ha messo il carico da undici in un esilarante saggio-recensione sul New Yorker, rivista di Manhattan che sta all’Economist come una bella e sottile elegia moderna sta a una solida epica secolare, magnifica letteratura contro un classico della politica.

 

Mishra smantella il tono ipocrita del fondatore, James Wilson, con le sue stesse alate parole: “Niente altro che puri principi”. Seguono le deviazioni liberoscambiste dai principi stessi. Esempio. Con gli schiavisti bisogna commerciare perché altrimenti si danneggiano gli schiavi (ooops!), oltre che i consumatori britannici. Altro esempio: il cibo irlandese va comunque esportato, nonostante la tremenda carestia in atto. Oppure: il libero commercio preserva la pace, ma se sono in gioco interessi coloniali, bè, allora ci va la guerra. Né Mishra risparmia il famoso genero di Wilson, Walter Bagehot, forgiatore di una formula più aggiornata e di maggior respiro del giornale. Stava con i confederati, che secondo lui avrebbero portato più rapidamente all’abolizionismo, e gli americani del nord che li combattevano non avevano, scriveva, grandi prospettive perché avevano combattuto fino ad allora solo “i nudi indiani e i degenerati e indisciplinati messicani” (oops!).  Ai primi del Novecento un altro direttore, Francis Hirst, trattava le suffragette in battaglia per il voto alle donne come “viragoes” che “devastano voti solenni, legami d’amore e d’affetto, onore e romance”, e chissenefrega se John Stuart Mill tanto tempo prima era per il suffragio femminile. Nella seconda metà del secolo scorso l’occhio persecutorio di Mishra vede un redattore scrivere che il massacro di My Lai in Vietnam, donne e bambini uccisi da soldati trasformati in serial killer, faceva parte delle “minor variations” della fallibilità dell’uomo sotto le armi. E colmo dei colmi (ooops, ooops) un Roberto Ross preparava il golpe cileno con queste parole: “I generali hanno deciso che una democrazia non ha diritto di suicidarsi”, e dopo aver scalpitato di gioia per la morte di Allende, il nostro Ross finì a dirigere un settimanale di cui era editore Anastasio Somoza, boia del Nicaragua (altro doppio oops).

 

La coppia Zevin-Mishra ha avuto in contraccambio di tanta velenosa attenzione una civilissima recensione sul numero in edicola del giornale. Firmata da Anthony Gottlieb (l’Economist non è firmato salvo quando parla di sé), la risposta si presenta con un tratto di furba ma eccessiva remissività. Siamo responsabili nella storia delle nostre idee (sottinteso, anche quelle sbagliate) ma contiamo prima di tutto per i fatti, visto che gli editoriali sono al massimo il 5 per cento dello scritto. Il sistema che sosteniamo, i mercati aperti, ha ridotto di brutto la povertà a partire dagli anni Ottanta. E i nostri lettori, in Europa in America e nel mondo, sono gente di sinistra, secondo i rilevamenti del Pew Research Centre. Avrebbero potuto più audacemente osservare, forse, che il moralismo ex post, e politicamente corretto, non è lo sguardo migliore per capire come si fa e si disfa il mondo moderno, e le ipocrisie dell’Economist sono sempre state l’altra faccia della sua influenza in quell’arte dell’elusione e della dissimulazione che è la politica, vero business dei liberoscambisti e dei liberali in generale, Economist compreso. 

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.