oberto Speranza , Nicola Zingaretti Luigi DI Maio e Giuseppe Conte (foto LaPresse)

L'Umbria ci dirà se può nascere davvero una nuova subcultura tra il Pd e il M5s

David Allegranti

Chiacchierate in libertà con i politologi Mauro Calise e Marco Tarchi

Roma. Ma l’unione Pd-Cinque stelle che va al voto per la prima volta in Umbria può diventare strutturale? E se diventasse strutturale sostituirebbe la vecchia “subcultura rossa”? Il politologo Mauro Calise, da poco in libreria con “Il principe digitale” (Laterza) scritto insieme a Fortunato Musella, ci dice che l’alleanza Pd-Cinque stelle in Umbria è “un esperimento importante, perché consente di capire in che modo si possano avvicinare due elettorati che fino a oggi sono rimasti abbastanza distanti”. Anche perché le Regionali, rispetto ad altri tipi di elezioni, sono un caso peculiare: non esiste una “opinione pubblica regionale”, mentre invece esiste una opinione pubblica tout court (molto liquida peraltro).

 

 

Calise individua tre tipologie di elezioni nelle quali l’opinione pubblica può esprimersi. Alle Europee l’abbiamo vista in azione più volte con il “voto in libera uscita ed elevati tassi di astensione. Oggi va a Renzi, domani a Salvini, dopodomani a qualcun altro”. Alle elezioni nazionali, a partire da Silvio Berlusconi in poi, tutto è avvenuto “all’insegna della personalizzazione della leadership, che può anche declinarsi nella costruzione di un partito personale. Sta di fatto che tutti, dopo Berlusconi, hanno fatto operazioni di personalizzazione mediatica e organizzativa. Partiti e leadership”. C’è poi l’elezione comunale, dove “la personalizzazione della leadership c’è stata in scala ridotta. Questo ha consentito, agli inizi degli anni Novanta, di guardare alle elezioni locali come a una sorta di anteprima di quello che sarebbe successo alle elezioni nazionali”.

 

Qualcuno è riuscito persino a usare i social per vincere elezioni comunali, ricorda Calise, come Luigi de Magistris a Napoli. Ecco, le regionali, spiega il politologo, sono fuori da questi tre schemi. Fuori dallo schema delle europee e fuori anche da quello nazionale e cittadino. “Lo imparò a sue spese Massimo D’Alema nel 2000 quando da un sondaggio di Swg emerse che Cacciari avrebbe battuto Galan ma di tutti i candidati governatori alla fine l’unico che vinse fu Bassolino. Quella però fu la prova che gli elettorati regionali funzionano in altro modo. E’ come se nelle regioni gli elettori non leggessero i giornali. E non a caso non ci sono giornali regionali, ci sono semmai giornali nazionali che hanno la cronaca delle città, questo sì, ma le regioni non esistono dal punto di vista della pubblica opinione. Dal punto di vista della comunicazione non esistono neanche le reti regionali. La personalizzazione, anche mediatica, che ha grande spazio negli elettorati nazionali e locali, in quelli regionali pesa poco”.

 

Dunque, le subculture rosse possono essere sostituite da altre subculture? “No, le subculture hanno mostrato grande resistenza ma adesso dire che siamo in un’epoca liquida è un eufemismo. Non pensi al mercurio, ma direttamente al quantum. Le subculture, nel bene e nel male, nascono dalla vischiosità, dalla lentezza dei cambiamenti. Qui cambia tutto nel giro di tre ore. E’ il motivo per cui De Magistris non si candida presidente della Regione”. Queste elezioni, dunque, sono importanti da studiare, osserva Calise. “I Cinque stelle, a parte la Sicilia, alle regionali non ce la fanno. Adesso stanno pensando di aggregarsi al carro del centrosinistra, nel tentativo di entrare in una partita che non appartiene al loro dna ma a quello dei partiti tradizionali. L’esperimento è interessante perché c’è un tentativo di mettere insieme due elettorati e di unire da una parte l’opinione pubblica di protesta prevalentemente mediatica, i Cinque stelle, dall’altra la macchina territoriale del Pd”. Sono due circuiti diversi, destinati a incrociarsi per stato di necessità. Il M5s ha necessità di vincere qualcosa in luoghi dove non vince (le regioni appunto), il Pd deve mantenere intatto il consenso dopo che “amministratori di una macchina abbastanza funzionante sono stati presi con le mani nella marmellata”.

 

Democratici e grillini quindi stanno cercando di mettere insieme due circuiti diversi (il micronotabilato del Pd e l’opinione pubblica di protesta) ma anche Matteo Salvini e la Lega stanno cercando di compiere un’operazione analoga, per esempio unendosi “ad anime di un centrodestra molto territoriale, che si lega a Forza Italia e fa parte di micro-relazioni di comunità o di micronotabilato clientelare”. Anche il politologo Marco Tarchi, autore dell’“Italia populista” (Il Mulino), pensa che una nuova subcultura non possa “assolutamente nascere” fra Pd e Cinque stelle. “Occorrerebbe un tessuto connettivo di valori, credenze e progetti comuni, una visione univoca della società”, dice al Foglio. “Niente di simile esiste in questa alleanza anomala e contingente: come era evidente e ammesso da entrambe le parti fino al momento dell’improvvida mossa di Salvini, nel retroterra di M5S e Pd ci sono convinzioni e visioni agli antipodi su una grande maggioranza di temi”. Viene da chiedersi se i due elettorati siano compatibili, anche a livello nazionale. “No”, risponde Tarchi, “e suppongo che il risultato delle regionali umbre lo dimostrerà. Pur di salvare il salvabile, molti elettori del Pd possono digerire qualunque rospo, ma l’elettorato dei Cinque Stelle è meno disposto ad accettare voltafaccia e giravolte come quelle che oggi gli sono imposte”. Questa alleanza non rischia di premiare soprattutto il M5s, che nelle regioni non è forte come a livello nazionale? “A meno che non si facciano liste comuni e che il Pd sia disposto a concedere posti sicuri ai candidati degli ipotetici alleati, che sarebbero eletti con i suoi voti, direi di no. Mi pare più probabile che l’alleanza sia destinata a ridurre il consenso locale per i pentastellati”. Ma il fatto che il Pd sia costretto a cercare l’alleanza con i Cinque stelle non testimonia la fine di un modello? Dal “socialismo umbro” alla “Toscana felix”... “Quel modello è in crisi da anni e dubito che una momentanea trasfusione di sangue di un gruppo poco compatibile, come è quello del M5S, possa rimettere in salute il malato. Il che non vuol dire che, soprattutto in Toscana, il centrosinistra non possa farcela. Ma se ciò avvenisse, sarebbe in virtù della residua eredità Pci-Pds-Ds e della rete di condizionamenti ambientali, spesso pesanti, che quel lascito porta con sé”.

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.