Dare un taglio alla lagna sui parlamentari
Nessuna ferita alla Costituzione, nessuna sberla alla democrazia. La riduzione del numero dei parlamentari ha poco a che fare con il grillismo ed è il risultato naturale di un paese che ha scelto nel 2016 di avere chissà per quanto tempo un riformismo a metà
Non c’è nessuna ferita alla Costituzione, non c’è nessun assassinio del Parlamento, non c’è nessuna lacerazione della Repubblica. Il voto con cui ieri pomeriggio la Camera dei deputati ha approvato con maggioranza molto ampia (553 sì, 14 no, 2 astenuti) la riforma costituzionale che riduce di 345 unità i parlamentari della Repubblica (da 945 a 600) può essere criticata per molte ragioni ma non può essere per nessuna ragione considerata un attacco brutale alla nostra democrazia rappresentativa.
Il taglio del numero dei parlamentari non è, come si dice, una riforma che il Parlamento è stato costretto ad approvare per assecondare la demagogia grillina ma è una riforma che i parlamenti cercano di approvare dalla bellezza di trentasei anni. Ci provò nel 1983 la commissione bicamerale presieduta dal liberale Aldo Bozzi (prima ipotesi: 514 deputati e 282 senatori). Ci provò nel 1994 un’altra bicamerale presieduta da Ciriaco De Mita e Nilde Iotti (400 deputati e 200 senatori). Ci provò nel 1997 la bicamerale guidata da Massimo D’Alema (Camera non superiore alle 500 unità e Senato composto da 200 membri). Ci si provò nel 2007 con la famosa “bozza Violante” (512 deputati, 186 senatori). Ci provò un anno prima il centrodestra, arrivando ad approvare una riforma bocciata poi via referendum costituzionale (518 deputati, 252 senatori) e lo stesso destino toccò nel 2016 alla riforma costituzionale voluta dal centrosinistra, bocciata anch’essa al referendum, che prevedeva, all’interno di un sistema caratterizzato da un monocameralismo quasi perfetto, un Senato diluito fino a quota 100.
Dal punto di vista storico, la revisione del numero dei parlamentari non nasce come una battaglia in difesa della grammatica anticasta (curioso vedere oggi molti giornaloni che hanno cavalcato battaglie anticasta preoccupati per gli effetti che potrebbe avere il taglio del numero dei parlamentari sul destino della democrazia) ma nasce, a partire dagli anni 70 – anni in cui ai 900 parlamentari italiani si sono andati a sommare i circa 900 consiglieri regionali – come una battaglia in difesa dell’efficienza del Parlamento, per rendere quanto più possibile omogenei e non sovrapponibili le assemblee regionali e quelle nazionali. Ma al di là del dato di natura storica esiste anche un dato di natura politica altrettanto importante, che ci può aiutare a capire bene la ragione per cui oggi la modernizzazione della Costituzione non può che passare da una serie di passaggi tipici della politica formato spezzatino.
La vittoria del “no” al referendum costituzionale del 2006 e del 2016 ha di fatto archiviato la possibilità che in tempi brevi l’Italia possa avere non solo un sistema maggioritario puro ispirato al modello francese (monocameralismo quasi perfetto e doppio turno ultramaggioritario sono morti il 4 dicembre del 2016) ma anche una riforma organica delle istituzioni politiche all’interno della quale rendere più efficiente tanto il potere legislativo quanto quello esecutivo. In assenza di un’opzione organica, dunque, per modernizzare la Costituzione non resta che affidarsi all’opzione disorganica, che è l’opzione che vive nella scelta di fare del taglio del numero dei parlamentari non un fine ma un mezzo per una riforma complessiva del potere legislativo. E in questo senso non si può non notare che l’accordo di maggioranza stretto tra Pd, M5s e Italia viva per creare una cornice attorno alla riforma dei parlamentari ci dice che la direzione scelta dal governo è riproporre a pezzettini alcuni princìpi presenti nelle precedenti riforme costituzionali, come si capisce dall’enunciazione di uno dei quattro punti presenti all’interno dell’accordo firmato il 7 ottobre: “Ci impegniamo ad avviare entro dicembre un percorso che coinvolga tutte le forze politiche di maggioranza volto a definire possibili interventi costituzionali, tra cui quelli relativi alla struttura del rapporto fiduciario tra le Camere e il governo e alla valorizzazione delle Camere e delle regioni per un’attuazione ordinata e tempestiva dell’autonomia differenziata”.
Lavorare per avere un’unica Camera che possa dare la fiducia al presidente del Consiglio oggi è un’idea troppo utopistica. Ciò che però deputati e senatori possono fare se vorranno tenere fede agli impegni presi è allineare progressivamente gli elettorati di Camera e Senato, eliminando la base regionale e abbassando l’età per votare per Palazzo Madama, per avere così due Camere che siano il più possibile uguali e che possano arrivare alla fine del percorso-spezzatino a votare insieme, in un’unica seduta, la fiducia e la sfiducia al presidente del Consiglio. Tutto questo, naturalmente, sarà possibile solo se gli alleati del M5s non rinunceranno a difendere il Parlamento da riforme che potrebbero sì indebolire e svilire la funzione di rappresentanza degli eletti come la riforma – sognata dal M5s – che vorrebbe spingere i parlamentari a essere eletti con vincolo di mandato. Ma il voto registrato ieri alla Camera sul taglio del numero dei parlamentari è tutto tranne che uno scandalo: è il risultato naturale di un paese che, strizzando l’occhio ai professionisti del disordine, ha scelto di avere chissà per quanto tempo non solo il caos ma anche un riformismo a metà.
storia di una metamorfosi