La modella Izabela Kowalewska dà gli ultimi ritocchi al suo costume "Madre verde dell'Amazzonia”, durante il BodyFactory, festival internazionale di body painting in Cornovaglia (LaPresse)

Non riverniciamo di verde il rosso dei bilanci pubblici

Luciano Capone

Per un ambiente più salubre servono finanze più sostenibili. Il Green New Deal italiano non servirà a far ridurre le emissioni di Co2, ma a far aumentare quelle dei BoT

Roma. Viene istintivo fare un confronto tra il Klimapaket della Grosse Koalition tedesca, il piano per contrastare i cambiamenti climatici annunciato dal governo Merkel, e il Green New Deal rossogiallo, uno dei punti fondamentali del programma del governo Conte (“Occorre realizzare un Green New Deal, che comporti un radicale cambio di paradigma culturale e porti a inserire la protezione dell’ambiente tra i princìpi fondamentali del nostro sistema costituzionale”). E il paragone è sconfortante. Il pacchetto tedesco è un ambizioso piano di riconversione tecnologica e industriale, che impiega dai 54 miliardi di euro fino al 2023 ai 100 miliardi fino al 2030, che ha l’obiettivo di abbattere di oltre il 50 per cento le emissioni di CO2 entro il 2030 senza fare maggiore deficit e rispettando il pareggio di bilancio. In pratica, secondo i governanti tedeschi, alle prossime generazioni bisogna lasciare un ambiente più salubre e finanze pubbliche sostenibili. La mobilitazione delle risorse arriverà quindi da maggiore imposizione fiscale sulle emissioni: introduzione dei certificati di emissione (con un prezzo inizialmente non elevato, 10 euro per tonnellata di CO2, e poi crescente negli anni), aumento delle accise su benzina e diesel di 3 cent al litro dal 2021 fino a 10 cent dal 2026 (accise che resterebbero comunque più basse rispetto all’Italia), aumento dell’Iva per i viaggi in aereo. Le maggiori entrate verranno reimpiegate nel settore, o per detassare produzioni e consumi meno impattanti (elettricità verde, detrazioni per i pendolari) o per investimenti che portino a una transizione ecologica (stazioni di ricarica per le auto elettriche, agevolazione dell’acquisto di auto elettriche, incentivi per l’efficienza energetica e la sostituzione di caldaie, trasporto pubblico). Una parte consistente dei nuovi investimenti sarà indirizzata alla “cura del ferro”, con oltre 80 miliardi di investimenti per nuovi treni e nuove tratte ferroviarie.

  

In Italia, il cosiddetto Green New Deal non ha al momento una forma compiuta, ma dai primi indizi appare sempre più come un tentativo incoerente di riverniciare di verde il rosso del bilancio pubblico. Non è verde, non è nuovo e non è neppure un patto. Nel senso che non c’è un accordo né un progetto. A differenza del Klimapaket tedesco, nato dopo una lunga trattativa tra Cdu e Spd, il primo atto della strategia verde italiana è stato il cosiddetto “decreto Costa” presentato dal ministro dell’Ambiente, senza alcuna condivisione con gli altri ministeri, per una rapida approvazione prima del vertice delle Nazioni Unite sul clima e bocciato in preConsiglio dei ministri perché, appunto, il decreto costa (cioè non ha le coperture). L’approccio un po’ cialtronesco è proseguito con una serie di iniziative sconnesse del ministro dell’Istruzione Fioramonti, dalla tassa sulle merendine a quella sui viaggi aerei, che non rientrano in alcun quadro d’insieme ma hanno come unico obiettivo quello di fare cassa.

  

Il gettito di queste eventuali imposte su comportamenti “viziosi” come mangiare le merendine e viaggiare in aereo, non servirebbe – come nel caso tedesco – a fare investimenti green, ma servirebbe a finanziare nuova spesa corrente in altri capitoli di bilancio, come l’aumento dello stipendio degli insegnanti (naturalmente a pioggia, probabilmente perché la valutazione e il merito inquinano, chissà). Anche l’ondata verde globale in Italia si andrebbe a infrangere sugli scogli della spesa corrente che, come ha ricordato Carlo Cottarelli sulla Stampa, è aumentata solo per i nuovi sussidi di circa 90 miliardi dal 2014. Mentre altri paesi, come la Germania, utilizzano la rinata sensibilità ambientalista per una riconversione tecnologica e industriale, in Italia questo movimento viene utilizzato come pretesto per alzare un po’ di tasse a copertura di una spesa pubblica e di un deficit incontenibili. E così, l’incapacità di razionalizzare e ridurre la spesa corrente trasforma la fisionomia di un governo, nato con l’obiettivo principale di evitare l’aumento dell’Iva e che si ritrova, in alcune sue componenti, a proporre aumenti di imposte sui consumi come soluzioni ai problemi di bilancio. Per giustificare l’aumento della pressione fiscale si cercano però comportamenti “viziosi” e contribuenti “cattivi” da tassare.

  

Che dietro queste proposte non ci sia una visione d’insieme è evidente quando i singoli provvedimenti vengono intrecciati con altre “politiche industriali”. Come fa ad esempio il M5s a dirsi ambientalista e a elogiare il pacchetto della Merkel e allo stesso tempo essere contraria alla Tav? Basta rileggere l’analisi costi-benefici stilata dagli esperti scelti dall’ex ministro Toninelli per notare che il più grande beneficio della tratta ad alta velocità Torino-Lione è proprio di tipo ambientale: la riduzione delle emissioni viene stimata intorno alle 500 mila tonnellate di CO2, “circa lo 0,5 per cento delle emissioni di gas serra nel settore dei trasporti in Italia”, un impatto superiore all’aumento dei biglietti aerei (considerato che gli aerei valgono circa il 13 per cento delle emissioni nel settore). E proprio su questo punto appare surreale il salvataggio dell’Alitalia. Se in Germania si tassano gli aerei per investire nelle ferrovie, in Italia si tassano i voli aerei perché inquinanti (ma già ipertassati per pagare la dorata cassa integrazione dei dipendenti Alitalia) e poi si fa salvare l’Alitalia dalle Ferrovie che, appesantite da una compagnia in perenne e profondo rosso, saranno costrette a ridurre gli investimenti su linee e mezzi ferroviari. Il Green New Deal all’italiana non servirà a far ridurre le emissioni di CO2, ma a far aumentare quelle dei BoT.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali