Il premier Giuseppe Conte con il presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen (foto LaPresse)

Con il Conte bis cambierà qualcosa in Europa sul fronte immigrazione?

Luca Gambardella

Il premier a Bruxelles per incontrare la presidente Ursula von der Leyen parla di un possibile “accordo temporaneo” per la redistribuzione dei migranti. I margini per trattare sembrano esserci, ma il tempo non è molto 

Giuseppe Conte è volato a Bruxelles e ha raccolto segnali positivi dall’Ue per la creazione di un sistema automatico e obbligatorio di redistribuzione dei migranti tra alcuni paesi volontari. Il tempo però stringe e le “toppe” messe dall’Unione durante l’ultimo anno – quello all’insegna dell’ondata sovranista – per tenere i migranti lontani dall’Europa rischiano di saltare a breve. Il solo fatto di parlare con la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, è un forte segno di  discontinuità rispetto alla precedente esperienza di governo gialloverde. Fino a oggi Conte, ma soprattutto Matteo Salvini, nonostante il tema dell'immigrazione rappresentasse una priorità del loro esecutivo, avevano accuratamente evitato qualsiasi occasione in cui il tema veniva discusso con i partner europei. Ora, almeno formalmente, le cose sembrano essere cambiate: l’accoglienza dei migranti, riconosce il premier, va gestita a livello comunitario e per farlo bisogna sedersi ai tavoli negoziali dell’Ue.

  

Si avvicinano così delle soluzioni temporanee per la ripartizione dei migranti che però, nelle intenzioni del presidente del Consiglio, dovrebbero poi condurre ad altre più strutturate. A livello Ue, ha detto Conte dopo l’incontro con von der Leyen e con il presidente uscente del Consiglio europeo, Donald Tusk, “c'è grande disponibilità a trovare subito un accordo” per la redistribuzione dei migranti salvati in mare “ancorché temporaneo”. “Poi lo stabilizzeremo, lo modificheremo, lo perfezioneremo - ha proseguito -, ma assolutamente dobbiamo uscire dalla gestione dei casi emergenziali affidati alla sola Italia”.

 

Il sistema attuale ha fatto leva sulla rigidità del regolamento di Dublino, quello che impone ai paesi di primo arrivo l’obbligo di gestire le richieste d’asilo. Un qualsiasi piano di ricollocamento dei migranti, in mancanza di una riforma del regolamento, dovrebbe fare deroga a questa condizione che grava sulle spalle dei paesi di frontiera. Finora, il blocco di Visegrád (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia) si è opposto a qualunque sistema obbligatorio di ripartizione degli oneri dell’accoglienza. Conte ha ammesso che “probabilmente avremo dei paesi riluttanti” ma ha aggiunto che “c’è consapevolezza che chi non parteciperà ne risentirà sul piano finanziario, in modo consistente”. Insomma, chi tra gli stati membri non vorrà accogliere migranti potrà farlo, ma dovrà pagare (fonti europee sentite dalla Stampa stimano una cifra di circa 30 mila euro per ogni persona non ricollocata).

 

Ma l’inversione di marcia di Conte sui migranti arriva anche su un altro tema che, durante il suo primo governo, era stato caro al suo ex ministro dell’Interno, Salvini: quello dei rimpatri. Il premier ha ammesso che i risultati ottenuti finora sono stati scarsi e che l’unica soluzione è che sia l’Ue in solido a siglare accordi di rimpatrio con gli stati di origine dei migranti. D’altra parte, i risultati ottenuti da Salvini in quindici mesi di governo sono stati magri e la quota di 491 mila rimpatri promessa dal leader della Lega non è mai stata nemmeno avvicinata durante la sua gestione al Viminale.

 

Infine, c’è il tema Sophia: la missione Ue per il pattugliamento del Mediterraneo centrale è stata molto ridimensionata, sotto la spinta euroscettica del primo governo Conte, con il ritiro della flotta navale e avvalendosi solo di voli di avvistamento. Ora invece il premier dice di essere pronto a cambiare linea: “L'operazione Sophia non era stata completamente accantonata. Non era stata valorizzata, ma nel quadro in cui andiamo ad attivare un meccanismo di redistribuzione europea, una volta attivato, possiamo riconsiderare il tutto”. Tradotto: se i paesi dell’Ue promettono di accogliere i migranti l'Italia può rimettere in mare le proprie navi.

  

Agenda fitta

Ma risvegliare la diplomazia italiana in Europa dopo un anno trascorso in congelatore non sarà semplice. I nodi da sciogliere sono tanti anche se l’agenda degli appuntamenti è piuttosto fitta. Il primo passo formale si terrà a Malta, per il mini summit tra Italia, Malta, Francia e Germania. Alla Valletta i quattro “volenterosi” dovranno sottoscrivere un primo accordo per un sistema di ripartizione dei migranti. Al momento, secondo quanto rivelato stamattina dalla Stampa, le condizioni imposte non sembrano le migliori possibili per l’Italia (solo il 25 per cento dei migranti sbarcati in Italia e Malta saranno dislocati in Francia e Germania e non prima di un mese). È però un primo passo e le trattative vanno avanti. Poi ci sarà il vertice del Consiglio Ue dei ministri dell’Interno (in programma il 7 ottobre a Lussemburgo). In quell’occasione, l’Italia tenterà di coinvolgere altri paesi nell’accordo. Sarà il primo appuntamento europeo per il nuovo ministro Luciana Lamorgese e si prevede già decisivo.

 

I malumori di Erdogan

Il contesto di calma relativa sul fronte degli arrivi in Europa permette ancora un piccolo margine di tempo all’Ue per arrivare a una soluzione condivisa sui migranti. A breve, però, la situazione rischia di mutare. Gli accordi bilaterali conclusi tra Bruxelles e la Turchia tra il 2015 e il 2016 per arginare la crisi migratoria lungo la rotta balcanica non sono più una certezza. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha già dichiarato di volere rinegoziare l’accordo. A fronte di oltre 400 mila migranti cui è stato impedito l’ingresso in Europa tra il 2018 e il 2019, Ankara è insoddisfatta per lo stallo sulle concessioni che l’Ue le aveva promesso, tra cui l’abolizione dei visti per i cittadini turchi, che non è mai arrivata. E poi ci sono le richieste economiche: Ankara dice di avere speso finora 40 miliardi di dollari per pattugliare le sue frontiere (talvolta in modo tutt’altro che trasparente) ma accusa di avere ricevuto dall’Ue solo 3 miliardi dei 6 promessi. Rinegoziare l’accordo con la Turchia rischia di essere molto complicato, viste anche le implicazioni sul fronte dei diritti umani, calpestati in più occasioni da Erdogan anche negli ultimi mesi.

 

 

Le opzioni Rwanda e Niger non funzionano

Ma anche sul fronte meridionale l’Ue dovrà rivedere più di qualcosa. Vincent Cochetel, inviato dell’Unhcr nel Mediterraneo centrale, ha annunciato un piano di evacuazione di 500 migranti dalla Libia al Rwanda. “Non risolverà il problema ma è un passo avanti”, ha detto. Eppure sono in molti a nutrire dubbi sull’opzione di riversare persone da un paese in guerra a un altro dove i diritti umani non sono rispettati, come confermato anche da report recenti elaborati dall’Ue. Secondo Camille Le Coz, analista al centro di ricerca di Bruxelles Migration Policy Institute Europe, si tratta solo di una pezza, “una risposta insufficiente per le esigenze dei paesi europei nel lungo periodo”. Inoltre, nota la ricercatrice, “il presidente del Rwanda, Paul Kagame, non accoglierà migranti per semplice generosità: probabilmente chiederà ricompense sul piano diplomatico dall’Ue, ad esempio il silenzio sul fronte delle violazioni dei diritti umani”.

 

E sempre in Africa, si sta per aprire un altro capitolo sul Niger, il paese subsahariano su cui l’Ue aveva investito di più, oltre alla Libia, per il controllo delle frontiere e la lotta al traffico degli esseri umani. Nel 2017 è stato aperto qui un centro di accoglienza per i richiedenti asilo che poi venivano ricollocati in Europa. Oggi però il Niger – un paese poverissimo e a rischio terrorismo – è al limite delle sue possibilità e negli ultimi due anni ha accolto quasi 3.000 migranti. Non solo, nel 2021 si terranno le elezioni per il nuovo presidente e la disponibilità all’accoglienza e alla cooperazione con la Libia e con l’Ue sarà tutt’altro che scontato. Finora, gli investimenti massicci fatti da Bruxelles (e dalla Francia, in particolare) per pattugliare le frontiere settentrionali del paese africano hanno portato risultati al di sotto delle aspettative e il sistema di aiuti economici messo in piedi dall’Europa per convincere i passeur (coloro che facilitano il passaggio delle frontiere tra la Libia e i paesi confinanti) a cambiare attività non è considerato efficace e trasparente (lo ha spiegato bene Alexandre Bish, un ricercatore del think tank Global Initiative Against Transnational Organised Crime).

 

L’unica alternativa per trovare valvole di sfogo temporanee per arginare il problema dell’immigrazione, al momento, resta quindi quella di una riforma interna all’Ue per una redistribuzione dei migranti. E forse mai come oggi gli altri stati membri potrebbero essere motivati a ragionare e a sedersi al tavolo delle trattative, spinti dal rischio che i rubinetti, tamponati provvisoriamente negli ultimi anni, possano riaprirsi. Un’occasione unica che il governo italiano dovrà essere in grado di cogliere.

  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.