Nicola Zingaretti (foto LaPresse)

La Passione di Zingaretti

Carmelo Caruso

Aveva detto nessun accordo con il M5s, voleva il voto e non Conte. Ma ora tocca a lui. Ritratto del leader del Pd, di fronte al suo governo che non è suo

Ha accettato di consegnarsi per non tradire la consegna di partito “che viene prima di me” ed “è sopra di me”. E però, Nicola Zingaretti non voleva trattare perché, prima che la crisi lo trascinasse a Palazzo Chigi a negoziare con il M5s un governo che non desiderava (“Ma devo proprio andarci?”), pensava che il compito del Pd fosse quello di provarci e misurarsi alle elezioni dove sia chiaro “non è detto che sia io il candidato del centrosinistra”. E davvero non intendeva candidarsi perché Zingaretti crede nel potere della delega, nel talento che si disciplina e che si integra, ma solo nella squadra che si può dirigere senza necessariamente condurre, convinto come rimane che “a volte è più coraggioso farsi da parte anziché pretendere una parte che non si riesce a interpretare”. Con questa idea, appena eletto segretario del Pd, ed era marzo, ha richiamato intorno a sé donne come Rosy Bindi, Marina Sereni e poi Gianni Cuperlo, Luigi Zanda che la furia della rottamazione aveva allontanato e che invece Zingaretti ha recuperato e mescolato insieme a qualche giovane di partito da sottrarre “alla solitudine o dalla dipendenza di un capo”. Si riferiva a Matteo Renzi che non è riuscito mai a maltrattare, anzi, “gli riconosco che con grande energia ci ha provato” tanto che l’unica cattiveria scappata è: “Non l’ho mai votato ma ho avuto con lui un rapporto di franchezza e lealtà”. Dicono per questo che Zingaretti scivoli come il sapone e che ancora tentenni come quando, per mesi, rimandava il momento dell’annuncio della candidatura a segretario che alla fine arrivò, ma con modestia (“Se serve, io ci sono”) e senza la spregiudicatezza dell’uomo che si crede nuovo o la vanità di chi promette una rigenerazione. Credeva infatti che con il tempo avrebbe imparato a farsi conoscere e apprezzare non solo nel Lazio, dove è rimasto governatore, e non solo come fratello dell’altro Zingaretti, commissario di tutti per popolarità ma proprio per questo tenuto a distanza perché patrimonio nazionale e quindi, ha ripetuto più volte Nicola, “non ci vedrete mai insieme”. E invece, coinvolto e travolto dalla decisione di Matteo Salvini di annegare il governo, ed era l’8 agosto, a Zingaretti sono bastate poche ore per comprendere che per lui il cielo prima ancora di aprirsi si chiudeva e che la notte si spalancava. Il pomeriggio del 10 agosto corre la notizia che Renzi sta rilasciando un’intervista al Corriere della Sera dove si dichiarerà favorevole al governo istituzionale perché folle sarebbe votare subito e il Pd farebbe quindi bene a valutare un governo di scopo. Renzi in una mattina torna capo mentre Zingaretti in un pomeriggio si rimpicciolisce segretario e non dispone di uomini, non può contare sui gruppi parlamentari che è vero rispondono a lui ma dopo aver ascoltato l’altro. Se Zingaretti ha fretta di correre alle elezioni per poter eleggere uomini non ostili, Renzi ha bisogno di tempo, si racconta, per organizzare un partito nuovo. Così il potere si capovolge e forse anche la sorte. Renzi, che in passato leggeva L’arte di correre, adesso parla di pazienza mentre Zingaretti, che ha sempre calendarizzato le ambizioni, si scopre risoluto (“Ho passato anni a spalare nelle amministrazioni locali. In silenzio”). Ha un accordo verbale con Salvini che, a sua volta, ha ricevuto la rassicurazione da Denis Verdini: “Renzi mi ha detto che non sarà mai a favore di un’alleanza con il M5s”. Domenica 11 agosto, Zingaretti scrive sul blog dell’Huffington Post che lui con franchezza (ancora questo sentimento) dice di no a un governo istituzionale e che il Pd non ha nessuna paura del voto. Ma quale Pd? Quello di Zingaretti diffida dai social dove avviene un confronto disincarnato a differenza della piazza, quella materiale, che “per la mia generazione è grande. La piazza Grande di Bologna e quindi di Lucio Dalla”.

 

Zingaretti è nato a Roma, cinquantatré anni fa, ed è il secondo di tre fratelli, in mezzo a Luca e Angela, che a questo punto è la sola a cui non è stato ancora affidato un compito nazionale (“Lavora come impiegata in una società di servizi. Ci sopporta”). Non è mai stato brillante a scuola quanto Luca (“Avevamo lo stesso professore di matematica e mi ripeteva “Tuo fratello sì…”. Passai allora dal liceo a un istituto professionale. Mi ero messo in testa di fare l’odontotecnico”) e non è stato neppure estremo come lui (“Diciamo che da ragazzo militava più a sinistra di me”). Tutti e tre, ha raccontato, sono cresciuti come figli del Caso e non perché accidentale è stata la loro nascita, ma perché figli di una sopravvissuta. La madre, Ninni, ex impiegata dell’Inail, è figlia di un ebreo che per sfuggire alle deportazioni del 1944 si era rifugiato in convento. Quando i nazisti entrarono a casa, la nonna ebbe la lucidità di consegnare il documento da nubile (“Non siamo Di Capua, ma Ruppo”) e salvare così la figlia. Ma anche questa eccezionalità per Zingaretti è da inquadrare nella più grande storia comune (“La nostra è la storia di molte famiglie romane in cui come da noi si festeggiava la pasqua ebraica e poi si andava a messa”). Prima di annunciare la chiusura al M5s, che poi sarebbe stata apertura, Zingaretti, ed era l’11 agosto, è stato visto passeggiare per le strade del quartiere Prati, dove abita, e poi avvicinarsi al caffè Settembrini, il Bateau-Lavoir della sinistra romana dove ogni giorno si reca a fare colazione. Qualcuno lo ha fotografato seduto al tavolino, mentre si rileggeva e annotava le parole che ancora poteva dire e non quelle che altri gli avrebbero chiesto presto di pronunciare. Per un attimo ha ricordato Pier Luigi Bersani, un altro che si è sottoposto alla ruota di Beppe Grillo e alle pinze di Roberta Lombardi, rimasto in compagnia della sua birra e dei suoi pensieri sotto il lume di una vecchia osteria. Ma nel caso di Zingaretti a mancare era il chiaroscuro e la luce era quella che ad agosto, a Roma, riscalda tutto, anche il malumore, e fa sembrare una farsa pure la catastrofe. “La verità è che non riusciamo a riprenderci il popolo che se ne è andato. Troppo grande è stata la rottura. Ma io credo che i 5 stelle sono destinati a scomporsi e i loro elettori saranno destinati a rivolgersi a noi”. Lo scriveva Zingaretti nel suo libro, Piazza Grande (Feltrinelli), perché a sinistra c’è ancora la convinzione che un programma di governo meriti di essere pubblicato e non solo smozzicato in qualche tweet: “La sintesi è il risultato della vastità, ma senza vastità non può esserci sintesi”.

 

Zingaretti ha puntato tutto sulla combustione del vaffa che è la rabbia andata a male, ma pur sempre considerata rabbia di sinistra e che nelle sue intenzioni andava addomesticata, riportata a casa attraverso buoni libri e giornali come la Repubblica, quella nuova che però è tornata all’antico con la sua certa idea d’Italia, con la penna come spada e quindi ancora con intellettuali e popolo, come ha spiegato Alberto Asor Rosa richiamato in servizio per contrastare i barbari. Allora “guai a dare una stampella a Di Maio. Egli va inchiodato alle sue responsabilità e i 5 stelle devono consumare fino in fondo la loro possibile, e auspicabile, deriva”. E ancora, “se verrò chiamato da Mattarella gli dirò che la nostra intenzione è di ridare la parola agli italiani” ha scritto e dichiarato in passato il segretario che nei momenti di tensione trova conforto sul tapis roulant (“Mentre corro, guardo Kung Fu Panda. Mi piace. E’ uno che crede nella giustizia. E’ un personaggio positivo”). Zingaretti, nei giorni che precedevano l’intervento di Conte al Senato, ha tentato la strada dell’unità. Il 12 agosto, al Nazareno, sede del Pd che voleva lasciare, ma che alla fine non ha lasciato perché il processo “deve avvenire con gradualità”, chiede di rimanere compatti, dice che “non è possibile”, “non credo sia credibile” un governo con il M5s e farlo “sarebbe un regalo a una destra pericolosa”. Ma più pericoloso sarebbe andare al voto a ottobre. Lo scrivono Romano Prodi, ma anche Walter Veltroni, lo sussurra Massimo D’Alema. Poi a pensarlo è Goffredo Bettini (“E’ la persona a cui ho rubato di più”). Zingaretti è stato l’ultimo segretario della Fgci su indicazione di Bettini e, prima ancora, sempre Bettini lo scelse come segretario della federazione romana, successivamente lo ha imposto come candidato alla provincia (“Nicola è il più bravo di tutti”). E’ stato una volta ancora Bettini a consolarlo quando venne silurato come candidato sindaco a Roma. Era il 2013 (“Verrà il tuo turno, vedrai. Intanto vai a fare il governatore”). A Bettini, Zingaretti ha indirizzato perfino una lettera, si trova sul suo blog, “per ringraziarlo per le parole di stima e di amicizia. Un onore per me. Grazie, caro Goffredo”. A Bettini apparteneva anche quello che è oggi il portavoce alla regione di Zingaretti, Andrea Cappelli, e che portavoce è rimasto per anni (“Le amicizie non si sostituiscono”) il solo, insieme a Massimiliano Smeriglio, eurodeputato, autorizzato a spiegare alla stampa quello che è il solito pensiero del segretario: “Nessun governo con M5s”.

 

Ma la mattina del 16 agosto quel pensiero inizia a vacillare: “L’errore è parlare di possibili governi prima della caduta”. Il paradosso è che Zingaretti è stato finora l’unico nel Pd a governare in regione Lazio grazie alla neutralità del M5s e per questo è stato accusato di complicità dai parlamentari renziani (“Vuole fare il governo con Di Maio. Sta sperimentando”). Nel 2018, il M5s ha invece provato (senza riuscirci) a sfiduciarlo. A ordinarlo era stato Grillo che nella sua prosa mattoide chiama Zingaretti “Er Zeppola”. “E tutti dimenticano che sia il M5s che la Lega li ho sempre battuti” disse in un’occasione Zingaretti che per raccontare l’inadeguatezza di Di Maio si è servito di una citazione di Pietro Ingrao: “Pensammo una torre, scavammo nella polvere”. Costretto a rotolarsi con Renzi che al Senato si è riscoperto leader, Zingaretti propone, fino al 20 agosto, le elezioni come “alternativa all’odio”, ma dopo le parole di Conte, che il Pd applaude, sa di essere minoranza della maggioranza e allora in direzione chiede: “Ma non ero io, per Renzi, il traditore?”. Dario Franceschini lo vuole persuadere, anzi, gli fa sapere che sta organizzando incontri (“Ti va di incontrare Spadafora?”). Carlo Calenda minaccia di uscire dal partito ma, se Zingaretti non accetta di trattare, ad andare via saranno i renziani che sono molti di più. Pure Paolo Gentiloni, che per Zingaretti anche quando tace ha ragione, riconosce che comunque vada andrà male e quindi “la cosa più giusta da fare è provarci”.

 

E’ il 22 agosto e la linea cambia. Zingaretti salirà al Colle e dovrà dire che “la crisi fa male agli italiani. Il coraggio non è di chi scappa” e magari suggerire discontinuità. Sarà la sua parola passaporto anche la sera in cui incontra Di Maio a casa Spadafora dove si mangia pizza bianca, ma Zingaretti, in verità, mangia solo verdure cotte e al limone (“Ho perso dieci chili. Ho delle intolleranze alimentari”). Lo ritiene complice del disastro insieme a Conte “che chiaramente non può rimanere”. E invece deve. A pretenderlo è Grillo e l’emergenza, adesso, è che il M5s giochi pure al doppio forno con la Lega tanto che Zingaretti si deve umiliare e lanciare un appello: “Spero dopo tutto quello che è successo che non esista un doppio forno”. E forse è più per rassegnazione che per convinzione che il giorno seguente, a tardissima sera, Zingaretti lascia filtrare quella che è sicuro possa essere la sua mossa del cavallo, il nome di Roberto Fico come premier al posto di Conte. Ma Conte non solo non pensa di andarsene, ma si immagina già superare Andreotti, Fanfani, primo presidente a rimanere in carica ma con due maggioranze diverse. Non sarà Fico il premier, ma deve essere Zingaretti a fare cadere il veto su Conte. Così chiedono Maria Elena Boschi, Pierluigi Castagnetti, ancora Franceschini. Lo spingono ad andare fisicamente a Palazzo Chigi. E poi c’è mezza Italia, fa sapere Repubblica, che glielo impone, (“Mi hanno chiamato perfino i cantanti, gli attori, gli scrittori”). E ancora una volta, come fosse ormai soltanto un’altra stazione della sua passione, Zingaretti si fa coraggio, reagisce e non si rifiuta.

 

Il 25 agosto, nel pomeriggio, entra a palazzo Chigi, per incontrare Di Maio. Saranno solo venti minuti, pochissimi per capire lo spavento che lo attende, ma sufficienti per comprendere che il governo che sta per nascere causerà l’aborto del partito che aveva in mente. I fotografi riescono a fissare quel passaggio. Seduto in automobile (“Ma io mi muovo a piedi. Sono un uomo normale”), con in mano il telefono, in un istante, Zingaretti invecchia e il futuro diventa memoria. Il 28 agosto, dopo aver comunicato a Mattarella l’intenzione di sostenere il M5s e come premier ancora Conte, prima di raccogliere gli applausi del partito, alcuni parlamentari lo sorprendono mimare una smorfietta e pronunciare: “Prima gli italiani! Giusto?”. Chi lo ha visto dice che somigliava a Memmo Viola, il protagonista della novella “Quando si è capito il gioco” di Luigi Pirandello, che era diventato ormai “invulnerabile al dolore, però impenetrabile anche alla gioia”.