Giuseppe Conte a Bruxelles (foto LaPresse)

Chi ha trasformato il Conte marziano nel presentabile BisConte. Nomi e storie

Salvatore Merlo

La diplomazia europea, gli spazi concessi da chi lo voleva commissariare e tutti i profili per capire il futuro del premier incaricato. Geografia di Palazzo Chigi

Roma. Il giorno in cui lo incaricò (la prima volta) di fare il presidente del Consiglio, il vecchio Sergio Mattarella, sempre modico nel parlare, ma vivo nell’azione come cauto e acuto nel pensarla, gli disse: “Le consiglio di farsi uno staff politico”. Giuseppe Conte, che arrivava dalla provincia e non s’era mai occupato di politica in tutta la vita, all’inizio non aveva capito bene quanto quelle poche parole sussurrate dal presidente fossero importanti. Attorno a lui, entrato a Palazzo Chigi pieno di carezzevoli aspettative, miste a una certa qual apprensione e timidezza, ogni cosa veniva apparecchiata da altri. Casaleggio gli aveva subito occupato l’intero primo piano del Palazzo imponendogli lo staff di Rocco Casalino. Giancarlo Giorgetti, il gran leghista, si era organizzato nel Palazzo con un suo staff numeroso quasi da “anti premier” (come l’anti Papa). E infine i due vicepremier, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, avevano occupato il resto. Per il presidente, quasi nulla: un segretario generale, Roberto Chieppa, molto esperto di legislazione ma digiuno di politica, una segreteria e poco altro.

 

Di fatto, dall’insediamento di Conte, e per i successivi quattordici mesi in cui è sopravvissuto il governo gialloverde, la presidenza del Consiglio è stata svuotata. Persino i decreti venivano scritti e perfezionati altrove, da Lega e M5s. E al famoso quarto piano di Palazzo Chigi, dove ogni premier può contare sul fortissimo “Dagl”, cioè il Dipartimento affari giuridici e legislativi, nessuno più in realtà lavorava. Così, ben presto, il “premier per caso”, precipitato come un marziano nel cuore dello stato, si è risolto, quasi naturalmente, per inerzia, a occupare l’unico spazio che sembrava proprio non interessare né la Lega né i Cinque stelle: la diplomazia europea. Attorno a sé, Conte ha trovato e rinforzato grazie a Mattarella una squadra che gli ha poi permesso di trasformarsi per tutte le cancellerie del continente “in Giuseppe”, “quello affidabile”.

 

In un anno e due mesi, mentre Salvini giocava con l’euro e Di Maio si fotografava con i gilet gialli, Giuseppe Conte non si è perso un solo vertice internazionale, nemmeno uno di quelli più inutili. E a portarlo in giro per l’Europa e per il mondo, oltre al bravo ammiraglio Carlo Massagli – il consigliere militare che per mesi ha provato a fermare lo stupidario grillino sulle commesse della Difesa – c’erano due ambasciatori di grandissima esperienza, depositari di quelle chiavi necessarie ad aprire tutte le porte al neofita spaesato: Maurizio Massari, rappresentante permanente dell’Italia presso l’Unione europea, ma sopratutto Piero Benassi, l’ex ambasciatore a Berlino che (su consiglio di Mattarella, stavolta ascoltato) il premier ha subito nominato suo personale consigliere diplomatico. L’uomo che oggi Conte ascolta più di chiunque altro per la politica estera.

  

Silenzioso, garbato, sorridente e condiscendente (raccontano che una volta sia stato capace, nel giro di pochi minuti, nel corso di un vertice, di dare ragione prima a Orbán e poi pure a Macron, che è un po’ come fare il tifo per la Roma ma anche per la Lazio), Conte all’inizio era forse apparso un po’ strano ai leader europei. Non solo non parlava mai a braccio, ma sempre leggeva dai foglietti preparati dal servizio diplomatico. E agli occhi degli osservatori stranieri, dei suoi colleghi capi di governo, qualcosa non quadrava in quell’aria da gagà calato al G7 e al Consiglio europeo, col fazzoletto a quattro punte nel taschino, i gemelli, la lacca, il profumo al limone… Ma poiché la sguaiataggine irrazionale di Salvini e Di Maio aveva decisamente abbassato le aspettative sul nostro paese, alla fine, in fondo, quell’italiano azzimato e un po’ fuori posto, con la sua aria inclinata da maggiordomo, non risultava così male. “Almeno non è maleducato”.

 

Ma non è certo soltanto grazie alle buone maniere (o alle cattive di Salvini) se alla fine Giuseppe Conte è poi riuscito a evitare all’Italia la procedura d’infrazione per eccesso di deficit, se ha compiuto il capolavoro di far giocare la grande politica di Bruxelles agli scombiccherati grillini (che da sconfitti alle elezioni sono riusciti a eleggere un vicepresidente del Parlamento), se ha fatto entrare il M5s nella maggioranza che ha eletto il presidente della Commissione, e se infine ha talmente convinto il mondo e gli osservatori stranieri al punto che in queste ore – nell’instabilità politica – è bastato averlo (ri)nominato a Palazzo Chigi per osservare un clamoroso abbassamento dello spread e un rimbalzo positivo pure della Borsa di Milano. Dietro tutto questo, nell’ombra, c’è il lavoro di gente che sempre ha saputo quali tasti premere e quali contatti andavano intensificati: Massari e Benassi.

 

Massari, ex ambasciatore in Egitto, con esperienza a Mosca ai tempi della perestrojka e poi a Washington, ex capo dei servizi stampa della Farnesina, oggi l’uomo che dirige di fatto la politica europea del nostro paese, pupillo del barone Ferdinando Salleo – uno dei più grandi diplomatici della storia italiana – ha introdotto Conte nei meccanismi dell’Unione, lo ha reso famigliare a Juncker, l’ex presidente della Commissione europea, e lo ha fatto proprio mentre Salvini diffondeva meme su internet e definiva Juncker “ubriaco”. Tuttavia è stato l’ambasciatore Benassi ad aprire a Conte la porta più importante, quella della Germania. Ex ambasciatore a Tunisi in un momento estremamente delicato, poi per cinque anni a Berlino, Benassi conosce da anni Angela Merkel e soprattutto conosce benissimo Uwe Corsepius, l’abile consigliere diplomatico della Cancelliera, con il quale Benassi ha un rapporto antico ed eccezionale. Tutti ricordano quel caffè tra Conte e Merkel a Davos, ma poi sono seguite cene, incontri tête-à-tête, momenti di sboccio di certe confidenze e indiscrezioni, primi fondamenti di una impalcatura amichevole su cui veniva crescendo remoto un sentimento di fiducia reciproca.

 

Così, mentre Salvini rovinava il suo straordinario successo elettorale alle Europee dimostrando una sorprendente incapacità politica, nonché il pericoloso vuoto della classe dirigente leghista, ecco che Conte quasi senza accorgersene diventava invece il perno di un’operazione che a Bruxelles avrebbe portato non solo all’accreditamento dei grillini tra le forze “accettabili”, ma anche alla prima convergenza tra il M5s e il Pd: “l’operazione Ursula”, con l’elezione dell’ex ministro di Angela Merkel alla guida della Commissione europea. L’intenzione, in origine, era d’usare qualche modesta diplomazia. Di impratichire un po’ un uomo che a stento parla in inglese. E’ andata a finire che per un incrocio irripetibile del destino, e con i buonissimi uffici del Quirinale (sempre presente), il professorino pugliese si è trasformato in una specie di baluardo della tradizione democratica in un paese – l’Italia – che intanto scivolava verso le più insulse sgrammaticature.

 

Adesso ritorna a Palazzo Chigi. Si è liberato dei due vicepremier, e in teoria potrebbe anche tentare di occupare quello spazio politico che Di Maio e Salvini a Roma non gli permettevano di avere e che alla fine però lo ha sospinto (per sua fortuna) verso quella politica estera che è oggi la vera ragione della sua riconferma. “Le consiglio di farsi uno staff politico”, gli disse Mattarella, quattordici mesi or sono. Il consiglio è ancora valido.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.